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Carlo Molinaro (Vercelli, 1953), nel 1972 si trasferisce a Torino, ove consegue laurea in Lettere con indirizzo linguistico-semiologico; ha lavorato dal 1977 al 2003 alla UTET, collaborando al Grande Dizionario della Lingua Italiana. Premio Montale, alla prima edizione, con Poesie, in Sei poeti del Premio Montale (Scheiwiller, 1986). Ha scritto due romanzi e, in versi, tra l’esordio con La parola vacante (1982) e l’ultimo L’effimera commedia (Miraggi, 2016), ha pubblicato più di 15 raccolte, tra cui Tenui chiose al tempo (1992), Quaranta frammenti per Monica (1997), Entro incerti limiti (2002), Sospeso sogno (2003), l’antologico La parola rinvenuta (2006), Una città (2010), Rinfusi (2011), Le cose stesse (2013), Nel settimo anno (2016).
Racchiudere in poche righe la sua poetica è impossibile: tanto vale, allora, forzare la sintesi e dire semplicemente che racconta la vita. Molinaro osserva l’amore, la società, se stesso, la quotidianità e lo fa pensando poesia, prima di scriverla. Una sincerità totale in cui l’io narrante, sempre in prima persona, e la parola sono tutt’uno, ma senza «minimalismo autobiografico […] il suo, al contrario, è massimalismo di uno sguardo che tenta di campire tutto il mondo, di rappresentarlo senza orpelli retorici e il più possibile in modo immediato, etico perché non censurato in alcun modo», (M. Ferrari). L’ultima raccolta L’effimera commedia, edito da Miraggi nella collana non a caso chiamata Voci, testimonia la vigile sensibilità della sua poetica, che col tempo ha adottato forme più discorsive, senza perdere l’innata fluidità del verso.
La parola perduta
Ho perso una parola, scivolata
dalla memoria dentro il buio avido
che in densi gorghi ghermisce le cose
non messe sul bloc-notes nel momento
quando si può. Non tornerà mai più,
è inutile che provi a ripercorrere
la giornata o la vita. Tante cose
passano accanto e non le afferro. Pure
è maggiore la pena se un dettaglio
(minore, minimo, già trascurabile)
mosso nel paesaggio mi fa intendere
che per un soffio ho mancato l’aggancio
e quasi (quasi!) so che cosa ho perso:
una parola. Forse era la chiave
di tutto o forse, più probabilmente,
un aggettivo inutile. Il fastidio
è, nei due casi, uguale.
da Allo sbocco del vortice, Joker, 1996,
ristampata in La parola rinvenuta, Genesi, 2006, pag. 287
La neve di adesso
ne viene giù di neve
in questo mezzo marzo
è neve un po’ molle
neve sporca di città
che presto si scioglie
ma non ho voglia di ricordare
le nevicate dell’infanzia
forse erano più bianche
forse è l tempo passato
che lava più bianco
c’è un fattore decisivo
per preferire
questa neve di adesso
nella neve dell’infanzia
e della adolescenza
e della giovinezza
m’aggiravo da solo
turbinando nei fiocchi
i miei sogni impazziti
volevo nevicasse per sempre
seppellisse me e il mondo
ma la neve smetteva
com’è naturale
e restavo deluso
in questa neve invece
fra poco
prenderò un bus
per venire da te
salirò le scale
e nel quieto della camera
fra i mobili di legno
guardandoci
ascoltando il respiro
neanche m’accorgerò
di quando smetterà.
da L’effimera commedia, Miraggi Ed., 2016, p. 34
Il secolo
Non riesco – scusatemi, o
non scusatemi – a interessarmi al secolo,
alle sue esigenze, ai suoi gusti,
alle sue sensibilità. Il mio lettore
è fra mille anni o mille anni fa
– incidentalmente può essere oggi,
incidentalmente – sono molto presuntuoso,
lo so – scusatemi, o
non scusatemi – ma è il minimo,
mi sembra, per fare poesia:
farei altro, se no.
Poi – dico prevenendo un’obiezione –
scrivo moltissimo
di cose del mio secolo, ma
è per strappargliele via:
è perché, nel mio modo, le amo
disperatissimamente
e come un buono cavaliere antico
le devo – da sé stesse – salvare.
(da https://carlomolinaro.net/, 27 maggio 2016)
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