Una riflessione su “Meccanica dei solidi” di Raffaela Fazio

Editrice puntoacapo, 2021. Traduzione inglese di Patrick Williamson. Prefazione di Paolo Ruffilli, postfazione di Giancarlo Pontiggia

Scrive Giancarlo Pontiggia, nella Postfazione, che Raffaela Fazio non ama le raccolte disordinate, il verso abbandonato a se stesso, rarefatto e ambiguo. E se questa disposizione ha avuto ormai diverse testimonianze, in Meccanica dei solidi raggiunge un livello architetturale assolutamente chiaro.

Ci sono opere che in sé e per sé dicono già tutto. Si mostrano trasparenti e non richiedono altro che essere lette. La resa di una lettura terza in questi casi può essere inutile, difficilmente riesce ad aggiungere qualcosa: questa è una preliminare e inevitabile ammissione.

L’autrice racconta tredici storie di vittime, di uomini e donne morti nell’intenzione o nel tentativo di aiutare altre persone in difficoltà o sacrificatisi intenzionalmente in cambio della salvezza altrui. Ogni storia è preceduta e illuminata da una notizia dell’accadimento. Non è importante, qui, fermarsi sul repertorio, che copre un secolo e soprattutto gli ultimi decenni, e che narra di annegamenti, incendi, terrorismo, violenze private. È importante capire cosa possa dire o aggiungere la parola poetica su questi eventi, che immediatamente viene da definire straordinari.

Proviamo a considerare questa notizia (pag. 48, Lo scambio): “Durante la seconda guerra mondiale, Marianna Biernacka fu fucilata il 13 luglio 1943 a Naumowicz presso Grodno (attualmente in Bielorussia), dove era stata condotta dai tedeschi insieme al figlio Stanislaw, a seguito di un arresto di massa avvenuto tredici giorni prima a Lipsk, come rappresaglia per l’uccisione di un soldato tedesco. Marianna aveva chiesto di prendere il posto della nuora Anna, incinta di otto mesi e madre di una bambina di due anni. Lo scambio fu accettato. Marianna aveva 55 anni.”.
Cosa può aggiungere al fatto il poeta? Commozione, intensità emotiva, retorica forse. L’autrice sceglie la strada opposta: fredda, secca, precisa. È eccellente il commento di Pontiggia “non c’è retorica, in questi versi, che si offrono nella nudità, quasi disarmata, del vero, di ciò che è realmente accaduto […]  Raffaela Fazio crede nell’uomo, e per questo può scegliere una parola che vada dritta alle cose, e che sappia far sentire, nel visibile di ciò che accade, l’invisibile del cuore.”
La parola sceglie il visibile, il solido: il titolo, non casuale (“Mai titolo poteva essere più indovinato […] nel dettaglio del particolare e nell’estensione simbolica della definizione”, scrive Ruffili), dice molto della modalità di osservazione e di racconto dell’evento, così come la famiglia di nomina che mostrano l’approccio meccanicistico: “forze in gioco”, “tensione di rottura”, “vuoto che risucchia”, “carico”, “peso”, “massa”.

Ma quale pare essere l’intenzione della poetessa? Perché di fronte a gesta così sensazionali, di tragica enormità la parola resta misurata, quasi neutra? (La parola “eroe”, che certamente ruota e risuona nella mente di molti lettori, viene relegata una sola volta, in una notizia, attribuita ai compagni dello scomparso Augustin Affì, morto nel tentativo di salvare due bambini che stavano annegando.)
Per due motivi, secondo me.
Il primo, già lasciato trasparire, è che la nobiltà del gesto, la sua grandezza nelle unità di valore umano è già compresa in toto, nel gesto stesso, nella sua intenzione, nella sua accettazione.
Il secondo, forse non semplice da spiegare nella sua intima essenza, congiunge la normalità al sublime della dimensione umana: asciugando ogni ridondanza emozionale, persino schivando ogni valutazione morale che già non sia insita nell’accadimento, l’autrice tenta l’impresa altissima di “normalizzare” l’atto “eroico”, ovvero, ribaltando i termini, riconosce l’essenzialità e la normalità dell’altruismo, anche di questa ampiezza massima. Naturale e fondatrice, verrebbe da dire. Che le gesta e i fatti, tragici nell’epilogo per l’attore, spesso salvifici per chi ne ha beneficiato, possano essere rivestiti di coraggio, di altruismo è chiaro. Che vengano (al pari di sciami di altri possibili esempi più o meno drammatici o comuni, eclatanti o silenziosi), percepiti come straordinari, folli, eroici è possibile, secondo me, solo per la dominante dispercezione valoriale che ha cariato gli ultimi ed ultimissimi stadi della cultura occidentale (fatto salvo che l’occidente è dilagato in universale) dove l’equilibrio tra egoismo ed altruismo, io e noi, propri diritti e doveri verso gli altri è sbilanciato verso i primi termini degli opposti. In un’umanità che conosce e potrebbe sperimentare, temo, la propria “tensione di rottura” sull’equilibrio tra individuo e collettivo, tra cellula e organismo, avere e ricordare questo rapporto fondante è non solo preziosa testimonianza artistica, ma necessità sociale.

A uno scrigno di versi icastici, di segni precisi, di chiuse disarmanti sono affidate le vicende narrate e, ancor più, i profili dei loro autori:

«Da quali abissi viene/ nell’ora della fine/ la calma/ di una benedizione?», (In acque calme, pag. 29)

 «Non era suo destino/ l’ufficio nella torre, la carriera/ di giovane banchiere»,. (The man in the red bandana, pag. 35)

«Non si sopravvive/ mai del tutto./ Né mai del tutto/ ci si perde», (Una casa, pag. 39)

«A casa ha una moglie. Stanno bene./ A cena fino a ieri/facevano progetti», (L’ostaggio, pag. 69)

Negli ultimi versi di Raggio d’azione, nella già citata poesia sulla scomparsa del giovane Augustin Affi, l’autrice chiede:

«…Chissà se anche il paese
che lo accoglie
nell’ultima trasferta
per lui ha una parola
che per metà è pianto
e per metà vittoria.»

Meccanica dei solidi, quasi silenziando il clamore che avrebbe potuto assumere una parola poetica meno consapevole e governata, indifferente ai barbagli dell’apparire ed alle ridondanze espressive e scegliendo la luce nitida del vero, del sacrum facere, fornisce anche la risposta: è vittoria. Dell’umanità, della vita e della parola stessa.




LIVIU LIBRESCU

All’età di 76 anni, Liviu Librescu fu tra le 32 persone uccise durante la sparatoria del Virginia Polytechnic Institut, il 16 aprile 2007. Seung-Hui Cho entrò nel Norris Hall Engineering Building e aprì il fuoco nelle aule. Librescu, che teneva una lezione sulla meccanica dei solidi nell’aula 204, chiuse la porta della classe e si frappose col suo corpo, impedendo all’omicida di entrare. Permise così alla maggior parte dei suoi studenti di uscire dalla finestra. Lui fu colpito da cinque proiettili attraverso la porta; quello alla testa risultò fatale. Liviu Librescu, ebreo di origine rumena, era sopravvissuto alla Shoah.

Aula 204, Meccanica dei solidi

La porta è attraversata dagli spari
e il corpo non si stacca
è viva barricata
massa cosciente
premuta contro il nulla.
In cima a quello
la carne adesso esplora
un altro spazio: la forza
che al buio sopravvisse
ricava dall’interno una risposta
che ha la forma
di una finestra aperta
nel muro della classe.

(A questo
è infine destinata
la luce
covata in lunghi anni?)

Da lì si caleranno
in ventidue. Non lui.
Per lui, un quinto colpo.
Si schianta nella testa
l’ultimo tratto di filo spinato.
E il carico scompare.

Non si è sottratto
né si è piegato
all’attimo spurio. 
             Cosa offre alla storia?    
               Il perdono?
Piuttosto
ciò che al corpo è rimasto:
(estrema, generosa)
la sua sola
tensione di rottura.




ARLAND DEAN WILLIAMS JR.

Arland Dean Williams Jr. era uno dei passeggeri a bordo del volo Air Florida 90, che si schiantò nel fiume Potomac poco dopo il decollo da Washington, DC, il 13 gennaio 1982. Arland che, insieme ad altri cinque sopravvissuti, attese i soccorsi aggrappato ai rottami della coda dell’aereo passò di volta in volta a chi gli stava accanto il salvagente lanciato dall’elicottero. I cinque vennero tratti in salvo. Quando l’elicottero tornò per Arland, lui era ormai affogato. Aveva 47 anni.


Due forze

Due forze in gioco:
il gelo compatto del fiume
e l’incerta presa dei pochi
rimasti
aggrappati ai resti della coda.

Tra loro, uno più vigile di tutti.
Calato dall’alto, il salvagente.
Lui lo passa
a chi gli è più accanto
una volta, due, tre, quattro.

He’s the last man in the water.

L’ultima cima
non trova più la stretta delle mani.
È scomparso
sott’acqua, sotto i rottami.

Due forze in gioco:
la natura imparziale
e la scelta
dell’uomo che sposta
di tre quarti d’oncia 1
l’ago della bilancia.

1) Corrispondenti a 21 grammi, considerati il peso dell’anima.

Raffaela Fazio è nata ad Arezzo nel 1971 e vive a Roma, dopo aver vissuto in vari paesi europei dal 1990 al 1999 (Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera, Belgio). Le sue raccolte di versi: Corolle (1987, Premio Giuseppe Dessì), Per ogni cosa incompiuta (2008), A un filo più lento (2010), Ogni onda è il mare. Rime da regalare (2011), A garante il mistero (2012), La boîte (2013), L’arte di cadere (2015, prefazione di Paolo Ruffilli), L’ultimo quarto del giorno (2018, prefazione di Francesco Dalessandro), Midbar (2019, prefazione di Massimo Morasso), Meccanica dei solidi (Puntoacapo, 2021, traduzione inglese di P. Williamson, prefazione di P. Ruffilli, postfazione di G. Pontiggia). E’ appena stato edito da Raffaelli Un’ossatura per il volo, con prefazione di Rosanna Rosadini. Laureata in lingue e politiche europee (Grenoble) e specializzata in interpretariato (Ginevra), ha poi conseguito un diploma in scienze religiose ed un master in beni culturali della Chiesa, interessandosi in particolare all’iconografia cristiana.

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