“Verbali d’infrazione”, di Franco Trinchero: una lettura di Paolo Pera

UN BARBARO ARISTOCRATICO

L’opera Verbali d’infrazione (Campanotto Editore, 2021) di Franco Trinchero è la ripubblicazione[1] di  un’autobiografia latente in versi che dai dolori psichici parte per giungere all’universalizzazione di una sofferenza che potrà essere intesa quale Kaos cosmico in cui tutti siamo immersi più o meno consapevolmente. L’autore sembrerebbe quasi identificare questo Kaos – riscontrato anzitutto in sé stesso – col tempo del nichilismo in cui l’Occidente abita, l’arte (si sa) tanto quanto la filosofia oggi non può che trattare del declino della “terra del tramonto”, non tanto per ipotizzare vie d’uscita (peraltro impossibili: il tramonto ha da compiersi, e dal tramonto una nuova società sorgerà! Spengler docet) quanto per compiere un discorso sul presente, unico possibile là dove la storia (e con essa il tempo) ha avuto fine.
Ebbene, in questo celato racconto del presente il Nostro si pone, quasi in un (appunto) non-tempo nel quale esso in sé stesso spunta per poi scivolare – di ricordo in ricordo – verso un’indefinita X di nicciana memoria. Quest’emergere casuale del ricordo deriva da un abbandono a quell’amor fati nel quale neppure il destino pare certo: siamo insomma di fronte a una poesia che eccellentemente dimostra lo spaesamento nichilistico dato dal dominio del senso di vuoto interiore; spaesamento, e straniamento, del quale anche il compianto Giorgio Bàrberi Squarotti (nella nota introduttiva) cercava di dare notizia. L’impressione, leggendo questo volume, è infatti d’essere spersi in un labirinto dove il Minotauro manca, dove l’io poetante è Minotauro di sé medesimo (forse): auto-divorandosi durante i peggiori, e ciclici, momenti umorali. In quest’oscuro percorso senza uscita le apparizioni – benché sfocate o volutamente nebbiose – non sono poche: dalle apocalissi predette in giovane età: «[…] non concepì parole per risolvere / l’enigma bieco che lo visitava / con ronzìi sul cadere dei crepuscoli / – e forse intravide Colono, ma Asti bruciava, tetri sanculotti / dalle terrazze appiccavano fuochi, / gettavano massi omicidi / feroci propagavano l’incendio / nelle strade e nei nobili giardini / e nella mente di lui, fratello mascherato» alle entità femminili, dalla figura e dal sapore quasi sporco, o almeno non angelicato: «ma ecco che lo guarda sensuale, / flava e preraffaellita, slarga / le cosce strizzate dai jeans, / gli dicono che in cinque / s’apprestano a scoparla dopo cena / […] dice: “chi guarda è un bastardo” / mentre si spoglia, ma poi / ostende lieta il suo giovane pelo, / la piccola clitoride che vibra», oppure: «La ragazza G. sfilava il perizoma, / contemplava il mio ano»[2]. L’inquietudine di Trinchero, come si suol dire, si può tagliare con il coltello tant’è fitta, questo benché sul bianco della pagina appaia lenita dall’atto della trasposizione in versi. Difatti, quella del Nostro, è una poetria tanto ricca lessicalmente e strutturalmente da non consegnare nella sua interezza il disagio profondo dell’umano vissuto: si può dunque dire che la sublimazione che l’arte pratica abbia guarito il poeta? Questo non ci è dato di saperlo, ma ipotizziamo altresì che abbia curato il ricordo dello stesso; in effetti non molti – o forse solo il notorio Milo De Angelis? – hanno il coraggio di dire con la dovuta spudoratezza del proprio male psichico, né dei propri vissuti psichiatrici (cosa per nulla vergognosa, per di più).
La ricerca di un’identità sessuale pare uno dei maggiori crucci nella giovinezza dell’io poetante («[…] “ti mando da uno psicanalista”, / il pontificio psichiatra mi disse / che ancóra non avevo identità / sessuali, colluttai quasi con lui»), sebbene essa si dimostri non sempre stabile (e statica), particolarmente nei soggetti più fervidi; basti vedere le più tenere generazioni che “fervide” si percepiscono integralmente, e dunque in una mutazione tanto rapida e interminata da scadere nel ridicolo, dando pure l’impressione che quest’auto-percezione – quasi per nulla sofferta, se non da pochissimi elementi – sia solo un vizio retorico sdoganato e permesso dai tempi correnti. Nel lavoro versificatorio, e qui verrebbe la giustificazione del titolo da me proposto – che invero prende ispirazione da un articolo di giornale trascritto parzialmente in epigrafe dall’autore, con protagonista Attila –, l’antieroico[3] poeta dimostra la sapienza di un vero “classico” nell’uso del metro, ancorché esso accompagni storie (per parafrasare) che fanno stridere la pagina. Ecco allora il «barbaro aristocratico» di cui sopra, che con strumenti ormai – diciamolo! – desueti, nostro malgrado, narra di un imbarbarimento collettivo. Ma egli, il nostro Franco “Attila” Trinchero, barbaro non diviene poiché – comprendendo che il Kaos stava tanto fuori di lui quanto in lui – placa lo squilibrio e nell’eterno ritorno dell’uguale si confonde. Dunque un classico nella forma, con contenuti però non moderni ma post-moderni, deboli e pure debolisti: la verità – che tanto sapeva di armonica bellezza – qui non v’è più («verità non è quieta libertà / […] ma è la trappola / perfida dei re»), ha lasciato infatti il suo posto all’avvento di una crudezza tagliente (che non lascia dunque spazio ad alcun canto, se non latamente a una “musica redentrice”) e alla visione di un’apocalisse dispiegata: non avvenuta col fuoco (come predetto!) ma bensì col niente che la vita, in sé e per sé, parrebbe essere. Con questa finta-conclusione in tasca, o tra le zampe, il nulla più non devasterà la labile parvenza d’esistere che l’uomo, vivendo, ancora riesce ad avere in sé.

Paolo Pera


[1] La prima edizione fu nel 2014 presso Matisklo Edizioni, su incoraggiamento di Carlo Molinaro; visto che Trinchero non pubblicava più nulla dal lontano 1999, di certo demotivato anche da certa inautenticità del mondo poetico.

[2] Gli squarci pornografici nella poesia di Trinchero non paiono però compiaciuti, semmai parte della vasta caoticità esterna all’io; sono quasi orpelli a dimostrazione di quanto la società si sia desacralizzata anche nella più splendida possibilità che la carne pone, il sesso.

[3] Vestendo i panni dello sfortunato Elpenore dice di sé: «[…] non riuscivo a trovare le parole, / non sapevo da che parte stesse il sole / in polveri di giorni tutti uguali / […] il mare aperto / sta fuori dalle ciglia del mio giorno».

1 Comments

Lascia un commento