Su “Il ritorno dell’anima”, di Fabrizio Boscaglia, Ladolfi Ed., 2021.
Prefazione di Luca Pizzolitto.
di Alfredo Rienzi
Il titolo della raccolta d’esordio di Fabrizio Boscaglia, Il ritorno dell’anima, è un paradigma di come una linea netta e precisa possa separare una parola esatta da una parola vaga. “Anima”, infatti, è tra i termini a rischio di usura nella poesia, a rischio di appropriatezza, di emozionalismo mal tradotto. Ma quando, come in questo caso, viene convocata con alto rigore schiude il suo contenuto alto e potente. In realtà il significato moderno del termine, spesso sovrapposto e confuso con quello di “mente” o “coscienza” non aiuta a comprendere. Ma ancora più grave e perniciosa è la confusa equivalenza, tra “anima” e “spirito”, che col tempo si è venuta a creare nel cristianesimo e che costituisce il pensiero oggi comune.
Non è opportuno, in una semplice nota di lettura di un libro di poesie, smarginare in espansi argomenti dottrinali. Ma va comunque detto che l’idea della costituzione dell’Umano (e non solo) non bipartita (corpo e anima-spirito) ma tripartita (corpo-anima-spirito) è ben chiara nelle principali religioni e filosofie trascendenti, laddove, in estrema sintesi e con distinguo non trascurabili, l’anima è la componente individualizzatasi, nell’invaso del corpo, dello Spirito universale. Così è precisamente nella differenziazione, nell’induismo, tra Brahman, spirito universale e Atman, anima individuale e, analogamente, nei concetti ebraici di Ruach e Nephesh, in quelli greci di Penuma e Psyché, e islamici di Ruh e Nafs.
E allora, in quest’accezione di anima quale “componente spirituale”, di “scintilla divina” si comprende la potenza trascendente e verticale di qualcosa che troppo spesso viene relegata al piano psichico, mentale o emozionale.
Fabrizio Boscaglia dice – o più spesso allude – all’anima nel senso più alto e più proprio: «Una traccia di/ spirito/ che la carne/ non può/ cancellare» (p. 22).
La raccolta, prefatta da Luca Pizzolitto, si compone di una cinquantina di testi brevi o brevissimi (solo tre superano i dieci versi). Disposti in sette sezioni (Bagliori; Foglie; Ritorni; Gocce; Partenze, Occaso; Abbandono), i componimenti si contengono in un ambito sostanzialmente monostilistico dominato dal verso breve, non raramente monorematico, e da un ventaglio lessicale e simbolico armonico e omogeneo. In alcuni componimenti il verso appare ancora in cerca di una propria misura d’ordine e maturità, ma ogni testo è sostenuto da un dettato chiaro e misurato. Fabrizio Boscaglia, pur volendo circondare un nucleo alto e rarefatto, sceglie una parola trasparente, fin dal primo testo, a pagina 15, con cui anticipa gli scenari di confine che percorrerà l’intera raccolta:
«Non senza meraviglia
mi risveglio nell’inerte
dopo immemori cadute»
Di senso analogo, il secondo testo, ribadisce, nei versi iniziali:
«Tastare luci
con altre mani,
con altri nomi.»
Il «risveglio» di una coscienza soggettiva caduta nel sonno della materia inerte, avviene con «meraviglia» e si carica di tutta la densità delle sentenze gnostiche e sapienziali e traduce, chiarendolo e sottotitolando, il Ritorno dell’anima. Viene quindi, il lettore, introdotto nel percorso e già da subito e limpidamente collocato nel punto di osservazione nodale.
Ricorrere all’extratestuale è spesso operazione di dubbia correttezza e utilità. Nel nostro caso, tuttavia, l’extratestuale viene immesso nel testuale dallo stesso autore. Infatti l’aura sacrale, che si infiamma chiaramente – come visto – già dalla prima sezione Bagliori, con versi quali «Una traccia di/ spirito/ che la carne/ non può/ cancellare» (Ricordo) e «Grida lodi all’Amato il mio sussurro» (p. 25), e che mai abbandonano lo scorrere dei testi, nella settima ed ultima, Abbandono, assume un colore preciso, sancito finanche dai titoli: Ramadan, Fine del Ramadan, Rubā’i, Al Maestro. Ma ancor più illuminante è quanto scritto nella Notizia sull’autore: «Il ritorno dell’anima […] riunisce versi scritti nel transito tra gioventù e adultità, in un percorso intimo, non privo di apparenti deviazioni, che col tempo […] ha portato a incontrare la via spirituale del Sufismo». Ma, tracciate queste coordinate, non oltre intendo proseguire sulla via delle connessioni tra la dottrina e la poesia di Fabrizio Boscaglia, anche se resta chiaro il riferimento.
Da dove “ritorna”, dunque, l’anima? È più comprensibile, pur non essendo del tutto a digiuno di mistica o filosofia Sufi, rispondere con una delle macrometafore gnostiche (per altro non lontane), in particolare di quelle a forti tinte manichee: dal simbolico “sonno” dell’anima nel viaggio terreno (H. Jonas, Lo gnosticismo, SEI, 2002, p. 87). Il ritorno è dunque un risveglio, un compimento/nuovo inizio del percorso di avvicinamento al Sé:
«È il ritorno, a volte,/ la vera partenza » (p. 37)
Versi che narrano di «un canto di vita», di ascendere oltre al buio, di «estasi/ all’ombra della Pace», di «sonno del cuore» che svanisce come la nebbia e la notte, di una luce che penetra e s’accresce, fanno da segnale e sinopia di questo cammino di risveglio che, con diverse simbologie tradizionali, è l’essenza della via spirituale.
Ma qui si tratta, ad ogni modo, di chiedersi quali sono il ruolo e le necessità del deporre nei versi segni e testimonianze delle esperienze intime del poeta. Bene, si scopre, nella sezione III, Ritorni, che la poesia si propone all’autore non come epifenomeno o stanza accessoria, ma che è lievito, fermento, pietra d’angolo.
Le parole che «tremano dentro» forniscono – passate al setaccio – «la chiave/ di quest’attimo denso». Di più: si fanno strumento di rivelazione:
«Una voce riemerge,
impregna la carta.
Mi lascia incantato,
asservito
al verso che dice il momento»
(p. 45.)
Quasi una sintesi del percorso spirituale e poetico è, per chiudere questa breve disamina, il testo di pagina 46:
«Un po’ di anima,
sopravvissuta alle parole,
ritorna
restituita dai fogli.»
Alfredo Rienzi, dicembre 2021