Franco G. Trinchero: “Razionalismo e femminismo nella poesia di Maria Luisa Spaziani”

di Franco G. Trinchero
(da: Controcampo, Editrice Italscambi Torino, novembre 1987, pag. 17)

Si ringrazia Paolo Pera per le ricerche d’archivio e per la digitalizzazione dell’articolo.



Sono davvero poche le poetesse italiane che sanno fuggire alla tentazione d’insabbiarsi in una femminilità puramente passiva, ricettiva, generata più che generante, troppo compiaciuta del proprio ruolo, storico assai più che naturale. Fra le eccezioni, la più originale e ricca di spunti filosofici è probabilmente Maria Luisa Spaziani; ricorderei, poi, Liana De Luca (specialmente nel suo recente e più alto esito, Mediterranee), Mariella Bettarini, Dacia Maraini, Biancamaria Frabotta, Marta Fabiani, ed anche, per certi versi, Gina Bonenti. Lascio volutamente da parte il femminismo di alcune poetesse “di base”, assai clamoroso ma proprio per questo valido più come documento sociopolitico che come testualità poetica. Giacché la poesia non conosce i tagli di netto, è una ricerca che non può non tenere conto di mille sfumature, di molte ambiguità o incertezze, insolubili se non con una finzione ideologica.

La “femminilità” della poesia di M.L. Spaziani è appunto dialettica, non nel senso ottimistico e maiuscolo di Hegel, ma proprio come “dialogo” creativo (imprevedibile, non garantito) tra “maschile” e “femminile” (anche in accezione junghiana, quindi bi-sessuale), tra un datore e un dativo che si possono vicendevolmente scambiare – uomo e donna, appunto – e in tale scambio concretano un’alternativa alla storia, un’infrazione rigenerante che dalla letteratura, suo luogo deputato, intende anche trasmettersi alla vita.

M.L. Spaziani parte da un’immersione non affatto illusiva nella natura e nella storia, per approdare a figurazioni-ipotesi emancipate dal vincolo temporale e àntropo-culturale. Come ha scritto Bàrberi Squarotti, “il suo discorso è (…) andato sempre più liberandosi dai condizionamenti originali (l’ermetismo), verso la ricerca (…) del senso ultimo delle cose in una sorta di meditatività sublimata e solitaria, che giunge fino alla visionarietà onirica”. E, ancóra, preciserei che l’irrazionalità è in obiecto più che in pectore, mentre l’io scandagliante innerva di lucide auxologie una caotica fiumana, che è la vita stessa spogliata dei rivestimenti ingannevoli imposti dal potere e dai vincitori della storia. Come sfida al finto ordine costituito si viene a porre, accanto a varie altre proficue provocazioni, quel dis-ordine che è l’assunzione di un ruolo attivo da parte della donna, ma in funzione razionalizzante, non mai di sovversione fine a se stessa; piuttosto, di trans-gressivo, di crescita collettiva.

Per una poetessa come la Spaziani, fattrice di fantasmi più vividi della realtà stessa, inventare (o recuperare) il ruolo attivo della donna significa soprattutto inventare la storia di ogni passione, sottraendola al timone e alla monocromia del maschio. Ciò che ne risulta non è né una versione en rose del vissuto, né una corrosione virulenta dei valori maschili. È, molto più accortamente, un fantasma nuovo eppure d’antichità immemorabile, il segno del silenzio, uno zero tutt’altro che vuoto, che la donna sa recepire meglio dell’uomo, e nel momento in cui l’attualizza e crea il “suo” Adamo, anche fa sì che trasumani, ossia supera una presunta collisione biologica tra maschile e femminile, e, da “grande Madre”, genera l’essere nuovo, che non sarà un astratto ente mistico, ma la chiara e palpabile essenza della vita. Ciò è assai evidente nella poesia, molto cara all’autrice, Viaggio a Corinto (ora in Transito con catene, 1977), che narra di una creazione dell’uomo a opera di una donna, rovesciando il tradizionale dogma di Adamo ed Eva: il futuro uomo non era in origine che un “fascio di cose vaghe” senz’armonia, la donna gli ha impresso il marchio di fuoco che dà voce al silenzio primigenio.

Già a partire da Il gong (1962) “la donna si trasforma in personaggio eroico, in personaggio agente: agonistico e antagonistico” (Baldacci). Tale eroismo non è la spia d’una maniera un poco estetizzante, ma involge anche la consapevolezza che la solitudine è la marca costituzionale dell’esistenza, a mal grado dell’intrecciarsi di passioni amorose, di scambi, di dialoghi. Un tema decisamente novecentesco, rivisitato dalla parte di chi la storia vorrebbe relegare fuori dall’attiva riflessione filosofica, quando proprio essa è connaturata alla psiche femminile: nel che spira indubbiamente un’aura tragica: “Altro mi attende al varco, e ben lo sai”; “ora che il fuoco è spento e che la vita / in te, fiore di tenebra, si chiude”; “Non più gioia né strazio / Non più tempo né spazio”; “(…) la passione è un fantasma / troppo importante, uomini, per potersi incarnare”.

Le citazioni atte a testimoniare la volontà rifondatrice di M.L. Spaziani nel senso della sovversione dei ruoli tradizionali uomo/donna in direzione purificatrice e razionalizzante – parlo di una ragione “modernissima”, non forte, non globalizzante – potrebbero essere molte, mi limito alle più significative: “Fu un viaggio interminabile sull’arco / che al mio tempo guida al tuo”, “e il dialogo m’è nato, e più nessuno, / forse, saccheggia al buio il grano d’oro / che prima in sotterranei nasceva”, “perché il veggente è donna, e ben lo seppe / l’ultimo dei profeti”, “Quando io dico tu non sei tu né gli altri / ma un’ombra bella, un’eco in fondo alla caverna”, “Per sapere qualcosa di te / rileggerò i miei versi”, “lasciami il giorno per guardare, leggere / sprecare il tempo, divertirmi, escluderti”, “Sì, mi capita di guardare le nubi, / sprecare il tempo che sarebbe tuo”. Si trovano anche, in verità, argomenti di segno opposto, persino di melanconia un po’ acre per una perdita; ma ciò sta solo a ribadire quanto sostenevo prima: che c’è una dialettica, la quale può sfociare – e sfocia – in sintesi, ma non sempre e necessariamente.

Va detto infine come l’ironia sia divenuta, col passare del tempo, sempre più allargata e sicura (fino all’esito recente de La stella del libero arbitrio), parallelamente ad una sempre più magistrale convergenza di metrica accentuativa e quantitativa, l’una e l’altra un po’ torte, o amputate, o variamente agganciate a membri quasi “meteoritici”.

Sono segnali, anche per lo specifico tema qui accennato di sprezzatura del tradizionale e del maschile, che da Alcmane al notaro Jacopo è stato tremendamente serio e chiuso, nelle regole del contenuto amoroso e in quelle della forma.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...