di Paolo Gera
Io e Dario Talarico…c’è questo temporale violento della vita e si fa l’unica cosa fortemente sconsigliata quando dal cielo scendono aguzzi i fulmini: ripararsi in un bosco, sotto le piante di un parco o di un giardino. Entrambi l’abbiamo fatto per non bagnarci zuppi e ci siamo improvvidamente rifugiati sotto l’albero fronzuto della poesia. Lì siamo stati elettrizzati dalla folgore della filosofia. La folgore si chiama Ludwig Wittgenstein. Ma se io, per scrivere il mio ultimo libro, mi sono riferito alla teoria dei giochi linguistici contenuta in “Ricerche filosofiche” (1953), Dario Talarico si è spinto più indietro, al 1922, e da più in alto – il cielo della metafisica – ha ricevuto il fulmine nel corpo. La settima e ultima asserzione del “Tractatus Logico-Philosophicus” è: “Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen”. Suona poetico! Vuole dire: “Su ciò di cui non si può parlare, occorre tacere”. Ci sono testi nel libro di Talarico che riecheggiano questo supremo pensiero, ad esempio la composizione iv. di “REFERTO NUMERO 1”, un invito inderogabile al silenzio.
È vergognoso parlare di ciò che si ignora,
È inutile parlare — di ciò che si sa.
(p.18)
Più in generale è un procedimento di inflessibile rigore quello che l’autore ha appreso da Wittgenstein. Il rigore del pensiero si sviluppa poi nella cristallizzazione dello stile: sotto la parvenza di brevi poesie, si sviluppano centoventi frammenti che sono in effetti delle proposizioni logiche. Ma andiamo per ordine. Prima bisogna recuperare i cadaveri. Io sono stato incenerito e basta un colpo di scopa. A Dario Talarico il fulmine ha disseccato la sorgente della vita, ma il suo corpo è rimasto miracolosamente intatto, senza neppure una scottatura. A guardare le sue foto che circolano in Rete e a confrontarle, succede però che le fattezze della salma non corrispondano. Eppure, chi ha assistito alla scena da fuori, sotto la pioggia, è sicuro che a cadere stecchito sia stato proprio Dario Talarico. Occorre portare di corsa il corpo all’obitorio e lì studiare bene il portentoso caso. Occorre procedere ad un’accurata dissezione. La storia si fa ancora più strana quando ci accorgiamo che il dottore che si sta infilando i guanti somiglia in modo impressionante a quello che era in vita Talarico. Le mie ceneri assenti, ora volgarmente dette ‘il lettore’, sono stupefatte dallo spettacolo, ma una giovane infermiera, bella come la Verità – dunque alquanto bruttarella – mi consegna un libro per capirci qualcosa e il libro ha come titolo “Autopsia (reiterata)”. Il primo capitolo ha come titolo “Anamnesi”. Leggo con attenzione e curiosità senza perdere di vista il medico e il suo intervento, ma in breve mi accorgo che le operazioni condotte sul tavolo anatomico sono le stesse descritte sulle pagine. Punto per punto, inesorabilmente.
“Il medico è perfettamente libero di seguire le regole che si è dato, quindi è prigioniero. Gli strumenti a sua disposizione sono monotoni quanto asettici, e la disciplina seriale a cui deve sottostare sa inginocchiarsi solo a una religiosa chirurgia. Non ricorda più il mondo di fuori, non ricorda più il mondo di prima. A questo è addestrato: squadernare la polpa per rilegarla; scasso e sutura, punteggiatura e sintassi.”
(pp. 9-10)
Il cadavere è lo scrittore e la sua scrittura, ma, in un gioco di lucidi specchi, è anche l’anatomopatologo che, in veste di critico e di revisore, ritorna dopo anni sul suo lavoro di analisi. Lo scopo è ricercare “fra i tessuti e le nervature, i sintomi nascosti della vita e del linguaggio.” (p.11). Ora è la lezione lacaniana ad imporsi, la deduzione che l’inconscio abbia un proprio linguaggio strutturato, una propria sintassi che risponde alle regole di De Saussure su significante/significato e che parola e corpo siano legati indissolubilmente.
L’autopsia è reiterata. C’è la necessità di di ritornare sulla propria scrittura sino a farla diventare un corpo che non ha più il nostro nome e le nostre fattezze. Un sasso levigato che preferisce rimanere a riva e non farsi trascinare dalla forza del mare. Questo procedimento straniante si iscrive in uno schema mentale dove ha il suo regno il paradosso. Il primo paradosso segna la parte finale del prologo e indica il tragitto dei referti successivi: “partorire a ritroso, nascendo dalla fine”. (p.11)
Infatti si comincia proprio dall’attività precedente dello scrittore, perché “REFERTO NUMERO 1” raccoglie testi già apparsi sotto forma di capitoli in “Il coraggio di non lasciare il segno” (puntoacapo 2019). Nulla è lasciato al caso e la costruzione del progetto è di una precisione assoluta.
Il filosofo greco più noto per i suoi paradossi è stato Zenone, che cercava con divertenti giochi concettuali di dimostrare che il moto non esiste e che a governare il mondo è la stasi. Se applichiamo questo concetto fisico ad un piano più prettamente ontologico, ecco apparire un altro della scuola di Elea, Parmenide: l’essere vince sempre sul divenire, nulla cambia e tutto rimane sempre come è, le vibratili mutazioni dell’esistente non sono che un’illusione. “Nulla di nuovo sotto il sole”, pensiero che rimanda all’altra radice della Weltanschauung di Talarico, quella biblica dell’Ecclesiaste.
Non c’è altra contemporaneità che negli eterni
— e il nuovo non è tale — se non rimane.
Come puoi smettere — di ereditare il cielo?
(xviii, p. 25)
Nel “REFERTO NUMERO 1” e in quelli successivi, la precettistica suggerita dalle proposizioni poetiche si snoda per via negationis, in modo che il particolare del pensiero contingente possa ricollegarsi a un principio universale. Questa presa di posizione in cui si dimostra l’assoluta fallacia di tutto quanto si può dire intorno all’esperienza della realtà, ricongiunge il pensiero occidentale a quello orientale dei sufi e di Omar Khayyam: “Da un millennio all’altro, un millennio conta/ un secondo. Poi, un giorno, l’uomo non sarà” (cxii, vv.1-2, p.77).
Si risale pensiero induista e al Tao. Si arriva sino alla suggestione del Bhagavadgītā e alla derivazione del pensiero xxviii dal dialogo chiarificatore fra Krishna e Arjuna, prima della battaglia fra i Pandava e i Kaurava:
Nessuna questione di principio esiste.
Giusto o ingiusto che sia ciò che accade è —
naturale, ciò che non accade non lo è.
Quello che tu vorresti non ha nessuna incidenza.
(p.30)
Infine si giunge al maestro zen che propone un koan su cui il monaco dovrà riflettere per lunghi anni:
— Cosa significa il significato?
— Si alza il vento: le foglie applaudono.
(lxxxvi, p.62)
Ma ritornando alle terre europee e al cielo carico di nuvole della filosofia, attraversando a ritroso l’abisso di Nietzsche, si torna sino a Giacomo Leopardi e se si sostituisce la parola “verità” con la parola “morte”, ecco che ci ritroviamo proprio nello “Zibaldone”:
Non esistono turisti della verità.
Quando tu cerchi la verità, la verità non c’è.
Quando trovi la verità, tu non ci sei.
(xxxii, p.35)
Il pregio più grande di “Autopsia (reiterata)”, nel sincretismo che scaturisce da una rigorosa ricerca interiore, è quello di costituire una preziosa ed eccellente sintesi di pensiero. Giorgio Barberi Squarotti sosteneva che tutto è già stato detto e che per il poeta il problema è dire le cose vecchie in forma nuova. La variazione particolarmente abile di cui parla lo studioso, Dario Talarico la possiede, al punto che ora fuori dall’obitorio mi si presenta il corpaccio nudo di Johan Sebastian Bach.
Alcune delle proposizioni di “Autopsia (reiterata)” sono fulminanti – per tornare alla metafora di inizio articolo – e belle come solo può essere un fulmine che squarcia il cielo rabbuiato.
Non celebrarti nelle difficoltà. Razionare
nella mancanza è naturale: — arduo —
è non mangiare — quando non si ha fame.
(xxii, p.27)
Alla fine, dopo che i tre referti sono stati esposti nella loro completezza, l’autopsia è terminata e pare che i tessuti del corpo dissezionato che prima si differenziavano per la loro particolarità anatomica e funzionale, ora paiono indistinguibili, come foglie cadute da uno stesso grande albero. La diagnosi non dà scampo, eppure comunica una speranza più grande, quando la vertigine diventa un cenno affermativo del capo e l’illusione della singolarità si scioglie nell’accettazione del tutto e del niente.
Si è folgorati e si comprende di essere il fulmine che ci ha colpiti.
*
Così ogni cosa che esiste è stata partorita
dal nulla. Ma se in principio il Nulla ha generato
vuol dire che nel niente — un niente è stato.
E se tutto viene dal niente, perché il niente era,
allora il niente non è. Allora nulla è mai nato.
(DIAGNOSI (EPILOGO), p.85)
Dario Talarico è nato a Roma nel 1990. Suoi testi sono apparsi su «la Repubblica» (a cura di M. Cucchi e V. Curci) e in pubblicazioni fra cui Il Segreto delle fragole (a cura di G. Oldani e M. Bignotti, LietoColle, 2015), I poeti del Centro Italia – Volume quarto (a cura di B. Vincenzi, Macabor, 2020) e Il posto dello sguardo (a cura di C. Bagnoli, M. Ferrari e A. Pertosa, puntoacapo, 2021). È nella redazione di «Laboratori Poesia» e suoi contributi critici sono apparsi su Il sarto di Ulm e sui lit-blog «La poesia e lo spirito», «L’EstroVerso», «Poetarum Silva», «Almanacco Punto» e «Monolith». Per la poesia le ultime pubblicazioni sono La farfalla di piombo (LietoColle, 2013) e Il coraggio di non lasciare il segno (puntoacapo, 2019, European Poetry Prize Adam Mickiewicz 2021), per il quale ha ricevuto riconoscimenti anche ai premi Carver, Di Liegro, Alda Merini, Notari, San Domenichino (2020), Carrieri, Michelangelo Buonarroti e Grottammare (2021). Dallo stesso libro, un estratto viene poi pubblicato in Russia col titolo Простор для невысказанного/Spazio per il non detto (Free Poetry, 2021). Ha vissuto in un bosco per circa quattro anni.
Leggi anche, nel blog:
Inediti da “Autopsia (reiterata)” di Dario Talarico, 12 maggio 2021
L’irresolubile conflitto tra parola e silenzio in “Il coraggio di non lasciare il segno” di Dario Talarico