“Smentire il bianco”, di Silvia Patrizio. Intervista all’autrice

…nelle mani di Silvia Patrizio

Per fare un libro ci vuole un fiore
Consigli di lettura del giovedì (XIII)

di Rosanna Frattaruolo

Scheda Libro: “Smentire il bianco

         autore: Silvia Patrizio
         editore: Arcipelago itaca, 2023
         genere: poesia

  • Smentire il bianco è sicuramente un titolo che attira l’attenzione e la polarizza, complice anche l’epigrafe di Francesca Mannocchi: Bianco è il colore del danno. Colpisce il riscontro che tu, tuttavia, usi una sola volta, nell’intera raccolta, il vocabolo “bianco” (a pagina 28): “pozzo come pianto/ bianco”, nonostante sia viva la percezione di essere continuamente inondati dalla bianchezza. Quanto conta per te “il non detto” in poesia?

È una domanda che meriterebbe una lunga indagine. Provo a rispondere attraverso suggestioni, non tanto per giungere a conclusioni quanto per aprire varchi, forse aporie.
Viene immediato accostare il non detto al silenzio, allo spazio bianco tra i versi che la poesia conserva e insieme smentisce.
Per me il silenzio è un’immagine: un bosco notturno. È quella densità solcata di suoni più o meno percettibili che riportano a un luogo precedente, o forse eccedente, il senso. La natura di notte è tangibile.
Mi fai pensare che la scelta di trasferirmi a vivere lontana dalla città abbia a che fare proprio con questa silenziosa tangibilità…
Il non detto appare come limite. Penso, però, a un limite inclusivo, capace di segnare insieme prossimità e distanza, residuo e pienezza, intimità ed esposizione. Genette, nel suo evocativo “Soglie. I dintorni del testo”, lo descrive così: «più che di un limite o di una frontiera assoluta, si tratta di una soglia, o […] un “vestibolo” che offre a tutti la possibilità di entrare o di tornare sui propri passi». In questo margine brulicante di infinite imprevedibilità, il silenzio diviene sguardo fertile, punto luce che rifrange sulla diagonale di possibilità del dire.
Sono da sempre attratta dalla polisemia simbolica dell’immagine del limite, restituita anche da tanti sentieri della riflessione filosofica. La condizione di liminarità, che disegna una «zona indecisa tra il dentro e il fuori, essa stessa senza limiti rigorosi, né verso l’interno (il testo) né verso l’esterno», mi interessa perché permette di seguire lo sviluppo del pensiero nei suoi momenti di rottura e di transito, nelle soste e nelle connessioni, tracciando linee e punti di fuga, oltrepassando soglie, essendo soglia esso stesso.
Mi piace presumere che l’indagine poetica, in questo solco, possa farsi responsabile del limite, di ciò che per Wittgenstein traccia il confine tra dicibile e indicibile, das Mystische, e che per Nāgārjuna, filosofo buddhista vissuto attorno al II sec. D.C., diviene vacuità (in sanscrito śūnyatā): non tanto uno spazio vuoto quanto l’inter-dipendenza tra gli spazi, orlatura sottile che «costituisce, tra il testo e ciò che ne è al di fuori, una zona non solo di transizione, ma di transazione»1. Ecco che lo spazio bianco, se indagato più da vicino, si qualifica sempre meglio come luogo in cui si realizza la sintesi additiva di tutti i colori dello spettro visibile, definibile soltanto nella sua complementarietà liminare al nero in quanto sintesi sottrattiva, “assenza” di colore.
E, come passeggiando in equilibrio sul filo del funambolo, l’approdo di tutte queste suggestioni è per me il corpo, limite nel limite, luogo di precarietà e sospensione, passibile di riscrittura quando “non basta riparare le parole” (Smentire il bianco, p. 25). Il corpo rappresenta per elezione ciò che è prossimo ma sempre altro, sempre sottratto alla presa del dire, in precario tendersi tra esserci e precipitare. Non solo si dispone simultaneamente da una parte e dall’altra della frontiera che separa l’esterno dall’interno, ma è esso stesso frontiera: membrana permeabile tra il dentro e il fuori, li confonde continuamente lasciando penetrare l’esterno e svaporare l’interno, separandoli e avvicinandoli, senza mai saturare l‘incessante movimento.
In questa radicale fragilità, il non detto può diventare anche il limite della malattia, l’apparente incapacità di nominare il danno, il pudore che rende soglia l’esperienza stessa: “essere sani a propria / insaputa” (Smentire il bianco, p. 25).

  • “Non c’è altro luogo, credimi, che questo, / tutto il bianco possibile, la pagina … / non tanto di una vita dice la scrittura / ma di quel niente in cui te la riduce e l’illusione precaria di ogni verso / credendo di salvarlo almeno in parte / quel lucente frammento tolto al buio, /… quel segreto mistero inesistente”. Così scrive Francesco Scarabicchi del bianco nel testo Una residenza dedicato a Massimo Recalcati ne “La figlia che non piange”. E’ attraverso la poesia che provi a smascherare, a smentire il tuo “bianco”?

La condizione di liminarità in cui colloco Smentire il bianco, la mia prima esperienza poetica, ha anche un’altra ragione: le sue pagine hanno rappresentato per me un momento biografico di difficile transito che mi ha obbligata a interrogarmi profondamente su un‘aderenza a me stessa scontata fino a quel momento e diventata improvvisamente porosa.
Un momento in cui il corpo – luogo, appunto, «di transazione» – si è rivelato veicolo di una radicale estraneità e la stessa prospettiva dell’autenticità è risultata maldestramente ingenua.
Ecco perché, durante i primi mesi di vita del libro, ho incontrato molte difficoltà nell‘espormi in modo personale e parlare con distacco della mia poesia, forse troppo sovrapposta a brandelli di vita.
«La realtà non è tenace, non è forte, ha bisogno della nostra protezione», denuncia Hannah Arendt ne “Le origini del totalitarismo”. Penso che la parola poetica porti con sé più il senso della protezione che l‘illusione della salvezza. Ma la possibilità della protezione si realizza soltanto affinando uno sguardo vigile, capace di non dissimulare, che attraversa e fa suo il coraggio della testimonianza.
Giocando con la parola s-mentire, mi piace scomporla fino al significato disforme di non-mentire, a me stessa prima di tutto. Il tentativo di sconfessare il bianco diviene paradossalmente una modalità di indossarlo, incorporarlo senza intralci, accettarlo come condizione di possibilità del dire stesso.
Faccio mie le riflessioni di Maria Borio nel suo bellissimo scritto a proposito dell’autenticità in poesia (uscito tra le parole chiave del blog Poeti post 68). Parlando di Amelia Rosselli, Borio riassume così il posizionamento dell‘autrice nei confronti della parola poetica: «lei esponeva con fragilità estrema una condizione e il suo spazio interiore faceva reazione con il mondo”. In questa risonanza, lo scarto del verso diviene scarto rispetto all’io che si ri-conosce in costruzione: «l’autenticità non ha bisogno semplicemente che siamo fedeli al nostro sé, ma che lo proviamo. Questo impegno comporta anche dolore, sconfitte, fallimenti. “Certo che fa male quando si rompono i boccioli”, diceva Karin Boye. Ma se poesia vuol dire discernere, ecco che essa può essere un modo di verificare intensamente noi stessi e il mondo».

  • A quali urgenze, poetiche e non, hai voluto rispondere attraverso il tuo progetto di scrittura?

Certamente l’urgenza che ha avviato la mia ricerca, e che ancora non si è sopita, è quella di mettere ordine, dare forma al magmatico coagularsi dell’esperienza. Esigenza che si fa imprescindibile quando la vita ci mette davanti a sfide che hanno a che fare con la percezione soggettiva di totale perdita del senso, quello spaesamento che si prova davanti alla paralisi portata, ad esempio, dalla malattia e dalla scoperta della più radicale fragilità.
Nel mio percorso personale il discorso sulla forma non si è fermato all’indagine biografica ma ha toccato molti aspetti, dalle ricerche filosofiche alle riflessioni poetiche fino alla pratica e alla familiarità coi testi dello yoga e del Buddhismo antico. La cifra di queste esplorazioni è la convergenza tra sguardo e forma: “Ogni cosa si compie dentro / l’intenzione di una forma” (Ophelia, Smentire il bianco, pp. 73-76). Wittgenstein, in uno dei suoi Pensieri diversi (verrebbe la voglia di introdurre indebitamente un complemento di specificazione: di-versi), dopo aver accostato la ricerca filosofica all’esperienza poetica – «Credo di aver riassunto la mia posizione nei confronti della filosofia quando ho detto che la filosofia andrebbe scritta soltanto come composizione poetica» – specifica: «Il lavoro filosofico è propriamente […] piuttosto un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere.
Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)».
Il tema della pretesa è la grande sconfitta dell’io di fronte alle sue stesse istanze. Vedere tutto questo collocandosi nel territorio liminare che sfugge al rapporto dicotomico tra bene e male significa costruire “criteri di resistenza“ (Maria Borio) a una realtà che non è tenace, che sfugge all’ambizione di controllo, all’atteggiamento umano, troppo umano del possesso.
Mi sembra di essere giunta a sentire – anche se non posso ancora dire concludere – che ciò che resta di questi cedimenti sia proprio la possibilità della forma, del dar forma come strategia epistemologica di emersione del senso.
È nella costruzione della forma che si rende possibile la parola poetica come protezione.
Queste riflessioni sono diventate, negli anni, la mia dimensione quotidiana di pratica e ricerca. O almeno, diciamo che vorrebbero essere un tentativo quotidiano di esplorazione, non sempre facile, soggetto a continui cambi di rotta e lunghi momenti di resa che somigliano a sconfitte. Ma credo che soltanto attraverso la pratica, una pratica quotidiana e intransigente di osservazione di sé, lo sguardo possa darsi forma e in-formare di sé l’esperienza inserendola in confini di senso, senza tralasciare smottamenti, eccedenze, perdite.
Accosto queste considerazioni alla pratica meditativa per come è descritta nei testi antichi del Buddhismo Theravāda. La parola sanscrita dhyāna riporta a una radice verbale che afferisce al campo semantico del vedere. Un vedere discriminante, capace di discernere, non intenzionato, ripulito dei meccanismi di identificazione e attaccamento che governano il nostro essere esseri umani. Meditare è, letteralmente, un processo faticoso, invasivo, lacerante di trasformazione del nostro modo di vedere le cose (e di cosa «si pretende da esse», insisterebbe Wittgenstein).
In sostanza, un lavoro chirurgico di ricostruzione del nervo ottico.
Allo stesso campo semantico del vedere afferisce la parola vipassanā, forse una delle più abusate e fraintese nel mondo della modernità. Contrariamente a certe semplificazioni contemporanee, che tendono a tacitare il lato eversivo e antropologicamente rivoluzionario di pratiche di questo tipo, i testi antichi descrivono la meditazione come un metodo disciplinato di trasformazione dello sguardo capace di dar forma, una forma consapevole, al nostro posizionamento nel mondo.
Questa chirurgia dello sguardo passa attraverso un lavoro sulla memoria che vorrebbe essere governata e non governante, di messa in ordine dei ricordi e delle proiezioni dell‘io, di presa di coscienza delle distorsioni della percezione per accedere in modo più consapevole a una modalità differente di presenza. Andrea de Alberti, nella sua prefazione a Smentire il bianco, sceglie un’espressione a cui non posso che aderire: “indagine endoscopica rigenerativa”: «Se domandiamo alla memoria soltanto un’informazione (o un colore) di ordine intellettuale la memoria ce la restituisce senza la sensazione di evocare niente da noi stessi. In questa raccolta, invece, Silvia si abbandona a una conversazione intima col passato elaborandolo attraverso un’indagine endoscopica rigenerativa».
Ma cos’hanno a che fare queste digressioni con la poesia?
Recuperando l’etimologia greca della parola, derivante dal verbo poiêin, il lavoro sulla parola poetica rappresenta l’altra possibilità del fare attigua alla prassi (praxis in greco). Trasformazione, dunque, e pratica come parole-chiave di un lavoro consapevole su di sé.
Ma ci si potrebbe spingere oltre. Ancora una volta mi appoggio alle riflessioni di Maria Borio che aggiunge, alla derivazione etimologica del termine “poesia”, il senso determinante di un altro verbo greco: «krino, “separare, discernere, giudicare, decidere”, da cui derivano “critica”, “criterio” e “crisi”». La poesia, intesa come pratica trasformativa dello sguardo, diviene forma di cognizione, o meglio ri-cognizione, critica della realtà.
Sono da sempre interessata, come lettrice prima di tutto, a quelle forme poetiche coraggiosamente capaci di sguardo, a una scrittura che voglia scendere in profondità, intelligĕre, solcare gli spazi bianchi con l’intelligenza del verso.
Tutto questo ha risuonato e risuona con un’urgenza interiore di trasparenza, un criterio di pulizia che si avvicina, forse sfiorandola appena, all’autenticità.

  • Architettura del libro: la presenza di due sezioni strutturalmente diverse che solo apparentemente sembrano non essere connesse. Una stanza bianca dopo il treno: testi brevi e senza alcun titolo intervallati da citazioni che ben si amalgamano con i contenuti. Col digiuno negli occhi: con titoli dedicati a cinque personaggi femminili della mitologia greca o religiosa, i testi sono più corposi; alcune poesie si scompongono poi in più testi che seguono un ordine numerico (Cassandra) o temporale (Penelope), confluiscono in un poemetto a più voci (Medea), in una messa in scena (Ophelia). Da dove nasce questa esigenza di frammentare la seconda sezione?

Coerentemente con un pensiero che fa del limite una zona di transito e non una cesura, non vedo separazione tra contenuto e forma, intendendo per forma non solo la modalità compositiva ma, come esponevo prima, la possibilità stessa del pensiero che si dà forma. Credo che la creazione poetica sia riconducibile al tentativo mai compiuto, sempre rimandato, di far emergere una forma capace di dire, in modo singolare, un contenuto. Come il volto appena abbozzato che continua a forzare la materia per trovare i suoi lineamenti nella pietà Rondanini di Michelangelo.
Da qui, i diversi paesaggi formali che costellano le pagine di Smentire il bianco vorrebbero essere altrettanti sguardi, o manomissioni dello sguardo, che si costruiscono nella reazione al mondo. La mia, certamente, ma anche quella del lettore che, attraverso le pagine, si interroga sulle sue stesse possibilità di forma.
Ecco perché è parte di questa ricerca della forma la scelta di amalgamare al contenuto le citazioni di altri. Ho sempre immaginato i versi di Smentire il bianco come gli abitanti di una zona di limite sdrucciolosa, di quel confine cedevole che trascorre tra il mio pensiero e il pensiero di altri, o meglio che fa mio il pensiero di altri attraendolo nella tela di una delicata e rispettosa osmosi.
Innanzitutto, questo risponde a un’esigenza dettata dalla gratitudine: il proposito di rendere omaggio a versi che negli anni non solo hanno nutrito la mia immaginazione, ma hanno rappresentato, in tanti momenti, delle vere e proprie ancore di salvataggio dal naufragio. Ma si cela, dietro la scelta di questa soluzione formale, anche un gesto di autenticità.
Judith Butler parla della “citazionalità dissimulata” di ogni atto discorsivo e dell’impossibilità, de facto, per un soggetto parlante di «cancellare ogni traccia della pratica citazionale da cui è condizionato e mosso» (J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo). Nella provocazione di questa autenticità è racchiuso il proposito ironico di non prendersi troppo sul serio, di dare uno smacco all’io e all’ipertrofia delle sue pretese, di esporre alla luce del sole, senza sovvertimenti, il furto inevitabilmente insito in ogni pensiero che si collochi coscientemente tra le tracce scavate da altri.
Derrida, in un’opera intitolata non a caso Margini (della filosofia), confessa «la categoria di intenzione non scomparirà, essa avrà il suo posto, ma, da questo posto, essa non potrà più comandare tutta la scena e tutto il sistema dell’enunciazione»

  • Nella seconda sezione si addensa nel linguaggio l’uso di una certa nomenclatura geometrico/ matematica, la necessità di un ordine, in ogni morire, che conquista: e dunque si spezza l’ellittica degli attimi, è inutile spiegare le linee che riassumono un destino, un taglio che … non interseca la vita, e poi lo spazio, il conteggio di pag. 68, la misura dell’assenza a pag. 69, il diritto di pesare a pag. 70, l’algoritmo di tenacia di una donna di pag. 71; infine, a pag. 73 “c’è una donna, / un corpo in sospeso. / Sulla scena rappresenta la stanchezza, l’equazione trascurata dalla storia”. Forse questo tentativo di scovare la formula che semplifica il cielo è dettato dall’urgenza di non restare sulla superficie del danno, ma definirlo nella sua misura e nel suo peso con precisione?

Questa tua osservazione mi fa ripercorrere intenzioni che non erano ben chiare nemmeno a me fino a questo momento.
Non sono in realtà così sicura che si possa scovare una formula capace di limitare con precisione il danno. Forse questa è l’aspirazione di ogni scrittura perché è consolatorio pensare che la nettezza dei bordi possa proteggere. È stata sicuramente anche la mia… Quello che mi interessa esprimere, però, è l’importanza del tentativo e insieme l’inevitabilità del suo fallimento, già da sempre annunciato.
Nel linguaggio matematico il limite suggerisce piuttosto una tendenza, il tentativo sempre rimandato di un approdo.
Io chiamo questo tendere “obliquità”, declinazione altra dell’idea di soglia. Il pensiero obliquo è il tentativo di Emily Dickinson di dire la verità da un’angolazione non frontale, un punto di vista incisivo ma non perentorio, capace di rivelare la fragilità insita in ogni presa di posizione indeformabile.
Mi viene in mente l’operazione di sottrazione di peso attuata da Calvino nella sua lezione sulla leggerezza. È il mito che, ancora una volta, come nei personaggi femminili della sezione “Col digiuno negli occhi”, viene in soccorso: credo che il mito abbia fortemente a che fare con questa modalità obliqua di visione…
Calvino usa il mito di Medusa per spiegare la relazione tra poeta e mondo: «Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. Subito sento la tentazione di trovare in questo mito un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo».
Nessuno può sfuggire allo sguardo pietrificante di Medusa se non attraverso una strategia divergente, volgendo lo sguardo ai riflessi, proteggendosi dalla morsa di pietra ma senza sottrarsi alla responsabilità della visione.
Divergenza e responsabilità, altro limite permeabile: «Perseo riesce a padroneggiare quel volto tremendo tenendolo nascosto, come prima l’aveva vinto guardandolo nello specchio. È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello». L‘eroe affronta il danno di petto ma senza restarne paralizzato, col coraggio delle linee oblique, dello sguardo laterale, fronteggiando e, insieme, facendosi scudo dell‘intransigenza del foglio bianco.

Per citare Wittgenstein un’ultima volta, questo atteggiamento può essere inteso come una dissoluzione dei problemi, dissoluzione che spesso risulta più efficace della ricerca perentoria di una risoluzione sempre eccedente: «La soluzione del problema che tu vedi nella vita è un modo di vedere che fa scomparire ciò che rappresenta un problema».
Nei Pensieri diversi questa possibilità si lega alla ricerca della forma… Io declino l’approdo a questa forma inedita come possibilità di trasformazione dello sguardo, nelle modalità che ho cercato di indagare attraverso lo stimolo delle tue domande.

Per concludere questa mia passeggiata nei dintorni della poesia, credo che sia l’obliquità, in quanto direzione della parola poetica, a tracciare, facendolo svaporare, il limite tra fragilità e tenacia.

  • In tre parole: l’essenza del libro

– Danno
– Ago
– Soglia

  • Apriamo il libro a pag…

pag. 17

Il danno ha i contorni del corpo
– lesioni ispessimento terapia –
sorprende nomi inediti alle cose
e li chiarisce
nel suo lessico d’aghi
che scuce le vertebre e sceglie
una posizione alla paura.


pag. 25

Non basta riparare le parole: il gioco è riscrivere il corpo sfilare
pupille dai bottoni fare grotta con le mani improvvisarsi rotta da appuntare
scontare il peso fiaccato dal cappotto essere sani a propria
insaputa pungere la carne con aghi di pino.


pag. 73

Ophelia

                           I watched my teaset, my bureaus of linen, my books
sink out of sight, and the water went over my head.

Sylvia Plath, Ariel

I Scena

È la stessa luce
che ieri cercava sui gelsi un volume

oggi la pioggia
trasforma le impronte lasciate dal topo,
dal suo piccolo panico. C’è una donna,

un corpo in sospeso.

Sulla scena rappresenta la stanchezza,
l’equazione trascurata dalla storia.

  • Chi l’ha letto, racconta

Francesca Del Moro, nota critica per l’edizione 2024 di Bologna in lettere
“Ogni cosa si compie dentro l’intenzione di una forma” recitano due versi contenuti nella seconda sezione di Smentire il bianco, il libro di Silvia Patrizio pubblicato da Arcipelago itaca nel 2023. Un’affermazione che suona come una dichiarazione di poetica, perfetta per un’autrice che dimostra grande maturità nel padroneggiare il verso, che parte da un accurato lavoro formale, ovvero dal perseguimento di una scrittura cristallina, che non dà spazio al superfluo né all’ornato, per cogliere l’essenza delle cose.
[…] L’aggettivo bianco, sostantivato nel titolo del libro, appare nel titolo della prima sezione, con riferimento alla “stanza bianca”, possibile metafora di un qualsiasi spazio vuoto, di uno svuotamento interiore, oppure di una camera d’ospedale, punto di arrivo di un viaggio, coincidente forse con quello della vita (come si può dedurre dal riferimento al treno).
“Bianco come braccio che si blocca” si legge in una delle poesie, a introdurre un problema fisico, una malattia, l’arrestarsi della circolazione sanguigna (temporaneo o definitivo che sia) che fa impallidire la pelle, e, per esteso, blocca la scrittura (il bianco viene smentito anche dalla scrittura che riempie la pagina vuota e occorre, scrive Patrizio, “riscrivere il corpo, oltre a riparare le parole”). La stessa duplice valenza si ritrova nel riferimento alla “non più mano”, citazione da Laura Liberale, in una poesia-elenco in cui il soggetto si dà una serie di istruzioni per sopravvivere, forse guarire.
[…] “Malattia demielinizzante infiammatoria multifocale del Sistema Nervoso Centrale. Disturbo borderline di personalità” si legge più avanti nella prima sezione. Il danno interessa dunque sia il corpo sia la mente, ed è da questo che parte il cammino dell’autrice, volto a smentire l’ineluttabilità della “malattia del bianco”, recuperando e custodendo i ricordi, instaurando un dialogo con la propria quotidianità, con il proprio corpo e con la propria mente, spesso osservati col distacco analitico della cartella clinica.
[…] Il bianco in questi versi fa pensare a quello che annega la vista in Cecità di José Saramago e alle geometrie della copertina di Serie ospedaliera. Peraltro il bianco torna a più riprese nei versi del libro di Amelia Rosselli, dove si legge ad esempio: Di sollievo in sollievo, le strisce bianche le carte bianche un sollievo, di passaggio in passaggio una bicicletta nuova con la candeggina che spruzza il cimitero. Di sollievo in sollievo con la giacca bianca. Amelia Rosselli è una delle autrici citate da Silvia Patrizio nelle epigrafi che punteggiano il libro (insieme a Francesca Mannocchi, Anna Achmatova, Paola Turroni, Sylvia Plath). Altri richiami a modelli letterari si ritrovano nella forma di citazioni dai loro versi, specificate nelle note in fondo al volume (oltre alla già menzionata Laura Liberale, Cristina Alziati, Silvia Bre, Louise Glück) mentre le uniche figure maschili sono T.S. Eliot e Salvador Dalí, il cui dipinto La persistenza della memoria ispira il titolo di una delle poesie di questa selezione. E sempre donne sono le protagoniste della storia o del mito che prendono la parola nella seconda sezione del volume “Col digiuno negli occhi” […]. Quanto emerge in questi versi sembra dunque interessare soprattutto le donne anche se è dato riconoscervi una valenza universale. “La matta, l’adultera, la vedova, la madre” sono altri stereotipi femminili, sempre definite in funzione dello sguardo o della relazione con l’altro, che vediamo trasformarsi nella bellissima immagine dell’esercito di girasoli, emblema del cammino di guarigione che incarna il percorso di questo sorprendente libro di esordio.


Silvia Patrizio. Nasce a Pavia nel 1981. Diplomata al liceo classico, dopo la prima laurea in Scienze filosofiche e il lavoro di anni in libreria decide di addentrarsi in un nuovo cammino, questa volta lungo i sentieri della filosofia indiana. Consegue il master di primo livello in “Yoga Studies: corpo e meditazione nelle tradizioni dell’Asia” all’università Ca’ Foscari di Venezia e la laurea magistrale in Scienze delle Religioni, inter-ateneo tra Padova e Venezia. Intrecciando la pratica alla pratica dei testi, consegue anche il diploma di insegnante di yoga. Smentire il bianco è il suo primo libro di poesie


  1. Tutte le citazioni sono tratte da Genette, Soglie. I dintorni del testo ↩︎

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