Recensione a: Discorso a due, di Luciano Neri

L’arcolaio, 2019

«Nell’epoca del declino delle “Grandi narrazioni” è avvenuta la moltiplicazione delle piccole narrazioni in una miriade di racconti miniaturizzati […] nella narrazione di piccoli mondi: il mondo dell’affettività privata, la rammemorazione del vissuto e la rivivibilità del “privato” nel presente “attualizzato”. La modalità, il modus che nella poesia del pre-moderno aveva a che fare con il “soggetto trascendentale” è stata sostituita dalla pluralità dei soggetti empirici e dall’egoità dell’attualità». così Giorgio Linguaglossa proietta uno dei capisaldi della postmodernità secondo Jean-François Lyotard sulla poesia contemporanea.
La nuova raccolta di Luciano Neri, Discorso a due, si incornicia perfettamente in questo scenario e fa, apertis verbis, del “piccolo mondo dell’affettività privata” la tela della narrazione scientemente calibrata di «episodi di un incontro amoroso, per campi di figure, secondo una scrittura intesa sia come “strumento di distanziazione didascalica”, cioè a margine dei soggetti enuncianti rispetto alle immagini […], sia come immersione nelle immagini attraverso i corpi dei soggetti/oggetti d’amore e rivoltate all’esterno o dall’esterno rivoltate all’interno». Così ci guida, nella Nota al testo, lo stesso Autore.
Ci mostra, questa raccolta, come “piccole narrazioni” e come le schegge di un diario amoroso possano muovere dalla circostanza descritta o, più spesso, allusa ad ampliamenti di senso, densi, riflessivi, a tratti epigrammatici che poco hanno a che fare con l’asfittico senso di un’egoità richiusa nello specchio iperconcavo dell’evento. La sfida di una poesia postmoderna è anche quella di descrivere il legno che galleggia (e fosse anche plastica o frantume), e lasciare che l’abisso che lo sostiene e il cielo che lo sovrasta siano contemporaneamente assenti e presenti.
Nei versi, prevalentemente brevi, a volte verticali (da ricordare il primo Ruffilli) dove la narratività dell’insieme si frange in salti e silenzi, si trovano molti esempi del movimento “a due” che – dentro l’occasione della relazione personale – è essenzialmente un moto esplorativo tra  interno ed esterno, di figura e contorno, di fatto e significato, spesso in relazione non-lineare

«Attese e promesse/ sono i nascondigli/ più frequentati/ nella lontananza/ di un viaggio» (p. 46)
«Ha aperto il cuore/ persino allo specchio/ e alle proiezioni/ che tenevano a distanza/ la figura d’amore/ tra i frammenti del piacere» (p. 72)
«nascondersi per non ferire/ dopo che la ferita è stata mortale» (p. 97)

La raccolta, compatta e di solida tenuta complessiva, è suddivisa in cinque sezioni dai titoli indicativi: Fino al respiro dell’altro affamato, Chi parla (esule e inerme), Fantasmi (letture, sogni, proiezioni, specchi), Gli amanti sono forme, Fuori copione, precedute da un testo isolato, che pare introduttivo:

«Può sembrare l’anestesia/ di un moribondo questa lista/ del dispendio d’amore./ […]/ invece è la vita di uno/ trasformato dal presente/ del passato» (p. 17)

La narrazione avviene prevalentemente in terza persona, avvalorando la dichiarata intenzione di distacco dall’evento, di rielaborazione a distanza e vive le accensioni, le flessioni e le dissoluzioni del rapporto, che però appare, nel ricordo-elaborazione depositato in parole, come predestinato. Già dalla prima sezione:

«L’amore non è di questa terra/ era un motto per entrare nello specchio/ magico [….]/ la chiave incustodita» (p. 25)
 «Due cornici sovrapposte/ e nel fondo vuote/ e all’interno due riflessi/ allontanati dai corpi/ senza ricordo/ né illusione/ soli di una nascita/ e di una perdita» (p. 28)
«il mare più bello/ è quello che non navigammo» (p. 35)

L’alternanza, molto sorvegliata, di versi narrativi e scatti verticali o gnomici ci dice dell’attento lavoro di registro, pur in una raccolta, come ci informa l’Autore, nata in poco tempo. Si legga l’incipit a p. 41, semplicistico: «Era splendido risvegliarsi/ a un millimetro dal naso» e l’immediato slancio che segue dopo pochi versi: «Euridice che viene/ spenta/ da un’altra era».
La tonalità della seconda sezione Chi parla (esule e inerme) è quella di una ferita raggrumata provocata dall’assenza («l’involucro vuoto del corpo/ del condannato»; «il vaniloquio della donna/ sprigiona la condanna»; «un grumo/ l’ultimo/ con la parola fine»; «la sera è l’addio/ che respira/ e serve una garza all’agonia dell’assente») e lo sguardo prevalente è ancora nella cornice della relazione, per quanto vuota. Ma è dalla terza sezione Fantasmi (letture, sogni, proiezioni, specchi) che, rendendo effettivo un movimento centrifugo e speculativo, l’Autore raggiunge gli esiti più vivi e ci offre le immagini più coinvolgenti e i componimenti più intensi (anche i tormentati versi fratti tendono a distendersi, pur affrontando passaggi intensi). Uno, tra i molti pregevoli, è certamente I fantasmi della memoria, a pag. 66:

«Una donna che sia donna/ e madre partorisce i figli/ e i padri in un museo d’affetti/ nel colombario di un cimitero/ gli inadempienti e i generosi./ Nelle arterie il sangue/ immobile della fine che cede/ alle immagini i momenti vissuti./ Non oltre sino/ alla ferita – solo franchezza/ e l’estetica della rosa: morte/ oppure altro non c’è più richiamo./ Più è stato intenso (…) è più/ si irrobustisce nel flusso/ di sguardi e di grumi/ come chiuse/ al ricordo di perdersi.»

Non meno significative sono le ultime due sezioni, dove ancora i materiali della relazione  declinati in usa serie di opposti: il corpo o la sua assenza, il dono e la ferita, il sogno-ricordo e la vita reale, fin nel penultimo testo, eponimo, Discorso a due (femminile-maschile) e nell’ultimo, sospeso e tagliente al tempo stesso: «Alle fine […]/ due porte di fronte/ la strada era uguale,/ due gallerie enormi,/ una a levante/ una a ponente,/ una aperta».

Alfredo Rienzi,
ottobre 2019