Claustrofonia, di Doris Emilia Bragagnini: alcune traiettorie per l’ascolto

Doris Emilia Bragagnin, Claustrofonia, Ladolfi, 2018.
Prefazione di Plinio Perilli. Postfazione di Laura Caccia


Introdotto da un ampio saggio di Plinio Perilli (un commentario ricco e disvelante, che conviene dimenticare subito per non essere risucchiati nel fossato del già-detto e dal rischio di parassitare il saggio, esercitando minor attenzione all’opera), Claustrofonia, sottotitolo: sfarfallii – armati – sottoluce non è un libro facile da setacciare e spiegabile in ogni verso e pagina: la facondia, la varietà, la tumultuosità (chiaro)scura del dire condurrebbe il lettore (e, ancor più,  il recensore) in un affollato e rischioso incrocio di materie e suoni. Occorrerà privilegiare alcune traiettorie, mettendo in conto che se trascureranno altre.

Contraddicendomi subito, rispetto alla dichiarata volontà di non attingere alla prefazione di Plinio Perilli, dal lirico titolo “Tu voce che vieni da inferi smessi”, che riprende un verso di Approssimata (p. 102), voglio – devo – quantomeno estrarre due definizioni della raccolta: “inesauribile flusso di coscienza” e contenitore della “bellezza visionaria di certi passaggi [e di ] disegni pressoché archetipici”.  Rimbalzo brevemente sulla postfazione di Laura Caccia, solo per repertare, anche in questo titolo, La voce al chiuso, lo stesso lemma voce, in un indirizzo di lettura che già il titolo neologistico composto dell’opera pare avere imposto con la seconda componente, fonia.

E da qui cercherò di aggiungere quel poco che personalmente sono stato in grado di osservare e raccogliere dalla lettura-ascolto del molto scagliato dai testi.
La raccolta è suddivisa in sette sezioni, tra cui la prima, sfarfallii – armati – sottoluce (sottotitolo del libro) è la più corposa. Seguono ipernauta; se il fiore dell’ora; regoli; eroi celesti; giunchiglie trapassate; nonnulla da tenere, ultima sezione contenente un solo componimento, ho un’ora di tempo per darmi tempo, che include frammenti di pochi versi disposti in sequenza.
Forse basta già il primo testo, eponimo, per un impatto che fin da qui molto esemplifica circa l’uso del linguaggio, la genealogia delle occasioni della parola, l’incedere per sconnessioni e divergenze:

Claustrofonia

il muro tace, non risponde più
si lascia guardare angolandosi
in riproduzioni lessicali nei passi
o sfarfallii – armati – sottoluce

ogni tanto un urto di temperatura
differente, a porte chiuse ] tolte le dita
da maniglie ingoiate a sorsi uscite laterali
agglomerate al bolo circolante, contropelle

la risalita dei ricordi sfida il cemento
dell’anima in guardiola, divelta e sugosa
chiaroscuro del Merisi

stretto chicco d’uva fragola come fosse un uragano
moltiplicato a schizzi su pareti in guanti bianchi
divaricate a terra ora

“ …tu aprimi al tuo fiato singultato, viola di Tchaikovsky ”

(p. 31)

L’ondata verbale non avviene tanto a livello di estensione del dizionario, ma di densità versale e frastica. Il che è tutto dire, incontrando comunque già da subito un congruo drappello di neologismi, per lo più  composti: contropelle, captapensieri, eterocromie, nudistallo, sismando, catenazioni, portanuvole…

È una sorta di confessione programmatica quella contenuta nei versi di Angelique (pag. 33): «mi decido per un foglio bianco/ colore a me non predestinato», che pare essere ammissione dell’inevitabile e inevitata resa della poeta alla necessità della voce, che si fa strada con esiti inattesi e peculiari. Un timbro che sancisce che qui, in questo viaggio d’esplorazione, il linguaggio è lo strumento e al tempo stesso la meta.

È se la dimensione del/dei pensiero/i viene spesso richiamata, quale fonte della voce, che come vedremo assume spesso proprio la forma metapoetica di «parola/e», il titolo sembra alludere alla questione del dove si trovi la fonte. Indica un “suono dal chiuso” o “del chiuso”: una voce interiore, «sorda di clausura», ctonia, «che vieni da inferi smessi»:

«[…] la mano
che mormora il dire la tua voglia di stare quel buio profondo
lo sguardo ritorto all’interno, cieco di chi non crede altro lato
qualcuno»  
(p. 43)

«un passaporto per l’interno
senza mordermi la guancia, scesa nel silenzio cavernoso
senza smettere la rotta verso un luogo dell’ascolto indisturbato »
(p. 64)

«dovrei sballare darmi carica e saltare in aria le parole
fitte – che mi stanno in testa
mi discendo e non so vedere dal castone predisposto nel passaggio»
(p. 108)

Una parola a volte inespressa, intrappolata, magari intrappolata da un melmoso vuoto di senso:

«Mi rimane poco da dire se non l’inevitabile vuotezza
[scrivere vuotezza è di moda e sa molto più di vuoto]
di un mondo a colori che non distinguo»
(p. 105)

«delle parole eclatanti
[…] che me ne faccio
se non dicono niente del niente che tiene »
(p. 107)

«ne ho abbastanza di metafore seriali
[…]
il vuoto manca almeno quanto il pieno»
(p. 46)

Il testo Nido, che riporto per intero, offre la possibilità di esemplificare una originale metafora metaletteraria e farci pervenire a un altro aspetto importante della poetica di Bragagnini, che è l’ironia.

Nido

Curo i miei fogli come in una culla, li accudisco
ci giro intorno se li lascio so sempre dove sono e ci ritorno
li riassesto li dispongo li sposto gli rimbocco le parole
accarezzandoli con gli occhi a volte li detesto
sempre con quella bocca aperta come passeri neonati
cip cip cirip a chiedermi del cibo che ho nascosto o non ricordo
evito i beccucci non li guardo, allungo tapparelle faccio ombra
forse si addormentano

(p. 106)

L’ironia è utilizzata talora con calembours (come nei titoli: Yin e Jung; Circonduzione di capace – la danza-; Q.B. per un monologo) o sviluppando diverse forme tra il surreale e il più propriamente ironico-scherzoso: («maniglie ingoiate a sorsi»; «il calendario maya dice che/ prosciutto e senape non mi piaceranno più»; « uova del gatto»; «dente da the»). A volte si conficca, anch’essa, in un areale relativo alla poiesis o, più specificamente, contro il poetese:
«…l’ipernauta che abita la luna – oddio ho detto luna», p. 65
« …gabbiani sì, anche loro»,  p. 100

Questi affondi contro un certo poetare impregnato di lirismo, o banale o narrativo possono indurre a chiedersi, tra l’altro, se e quanto sia appropriato considerare lo stile di Claustrofonie, sperimentale o post-avanguardistico. Direi che la chiarezza dell’indagine dell’autrice, la forza dell’interrogativo   sulla dicibilità del mondo e del pensiero, unitamente all’incedere sintatticamente e lessicalmente disconnesso ma tutt’altro che disgregato, rendono bene giustizia di quello che Stefano Vitale (Il Giornalaccio, 7 luglio 2021) definisce non più di un “riflesso sperimentalista” o di una “tentazione”.  Alcune tracce grafiche (es. parentesi quadre e graffe) ne danno poco più che un richiamo superficiale, che non riguarda scheletro e cuore dell’opera.
Opera che, sgrossata l’illusione o il timore di una facile e spedita lettura (dipende dalle aspettative, ma già il titolo è potente indicatore e monito!), richiede e propone salti, inversioni, inciampi, soprattutto riletture incrociate. L’apparente primazia dello scrivente sul lettore, elemento per altro fragile nella poesia, può sviluppare qui equilibri nuovi e sorprendenti. Dirà, infatti, Doris, e – volgendolo forse strumentalmente –  voglio intenderlo come invito al lettore: «ti faccio passare, ti cedo il passo».

(Alfredo Rienzi, agosto 2023)


§ § §


La stazione

Mi decretai la morte il giorno di grano perpetuo
Splendeva una stele sotterranea e
fu talpa farsi sorda di clausura
tremando poi – tellurica – nel raggio dell’oltremondo
così tenero e malsano da penetrarvi il cuore
senza respirare trattenendo il cosmo esplodendo piacere

(p. 35)



Mappa Valentino

semplifico ammutinando nel pensiero
ogni parola che si getti a tuffo
in conclamati deserti descrittivi
l’intraprendenza dell’artificio
– gli stivali delle sette leghe –

dove finiscono i tratti inconsapevoli
quelle precise strade separate, dove
incontaminati i sentimenti gettano ami
al proprio cuore s’invogliano bruciando
del proprio ostinato segreto

(p. 69)



Interno con preghiera n°

scivola il giorno
nei suoni diafani della parte lesa
accatastati – regoli- come fervide tossine cerebrali

Susette ha un segreto, lo mormora all’ora
-tre volte-
davanti al crocino aeratorio sulla porta di tenebra blu

una nenia iniziata dall’alba luce rosa che muore
per brama di un’estasi rorida redatta sul pube
ghirlanda adornata con trine cadute

Susette ha un segreto lo spinge nell’ora
– tre volte –
lo nomina piano, lo attende, nel blu

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Doris Emilia Bragagnini nata in provincia di Udine dove tuttora risiede è presente in riviste letterarie cartacee e online, antologie e poemetti collettivi, in numerosi accreditati lit-blog. In “Neobar” e “Giardino dei poeti” collabora come redattrice sostenendo la divulgazione poetica. Suoi testi sono stati tradotti in inglese e spagnolo. Il suo libro d’esordio è “Oltreverso” (Zona 2012), seguito da “Claustrofonia” (Ladolfi ed. 2018) segnalato al Premio Lorenzo Montano (2019) e segnalato al Premio Bologna in Lettere (2019), selezionato tra i finalisti al Premio Pagliarani 2019, segnalato al Premio Umbertide xxv Aprile (2020). Finalista con “Terra Nullius” sezione – Una poesia inedita – al Premio Lorenzo Montano 2020. Finalista con “Shhhh” sezione – Una poesia inedita – al Bologna In Lettere 2021. Finalista con la poesia “Apotema di” al Premio Lorenzo Montano 2022.

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