Cesare Lievi, “Nel vortice. Il filo”: recensione di Camilla Ziglia


Cesare Lievi, Nel vortice. Il filo, Pordenonelegge-Samuele editore, 2022



La poesia di Cesare Lievi è un appuntamento da non perdere: ha il sorriso aggraziato della ballerina di alta scuola il cui gesto ha appreso perfezione attraverso un percorso.

Il titolo di quest’ultima raccolta ha una punteggiatura ragionata che nutre la sintassi di significati. “Nel vortice” metaforizza la condizione esistenziale della società occidentale contemporanea, in accelerazione esponenziale su se stessa senza sbocchi, senza un perno individuabile e gestibile, in sorpasso sfrenato e autosabotante sulla propria tenuta antropologica. Quale struttura mentale potrebbe reggere il passo, interrompere, individuare un senso al flusso caotico? Nessuna che preveda paradigmi rassicuranti, perché inghiottiti dagli eventi prima ancora di declinarsi.

In questo disorientamento, figlio dell’ultimo secolo e negli ultimi decenni sempre più stordente, difficile è stare, vivere nel vortice, guardarlo muoversi travolti in una “bufera infernal che mai non resta” come dovessimo scontare la morte vivendo nell’ansia. Molte parole ho speso sul vortice, ma Lievi ha ben altra attenzione: il filo (secondo elemento del titolo). Filo di Arianna? Forse, ma verticale, non orizzontale. E la salvezza non è una via d’uscita, non sta nello spostamento, bensì in una possibilità dello stare, in una capacità di sguardo che il poeta offre sul mondo fisico e metafisico in dialogo con le tre teste del drago orfico e le anime dei defunti, dei vivi e dei nascituri.

Poniamo che il vortice sia il battente di una porta e il filo la retta su cui sono montati i cardini. Nella realtà il battente separa un dentro e un fuori nel medesimo spazio, lo spazio del mondo, ma nella trasfigurazione poetica la distanza qui/altrove viene estremizzata fino a dimensioni metafisiche di vita/morte, anima/corpo. Nel suo vorticare qualche volta il battente permette di intravedere per un attimo l’altrove, l’invisibile. “Concede a volte il cardine al battente / anche l’altra apertura, l’impossibile” (p. 13). Diversi sono i giri di ruota nei tarocchi, perché quelli sono sottomessi ai disegni del fato e indicano cambiamenti di destino, questo è un vorticare immobile con il vuoto al centro.

C’è un custode al battente. “Il custode. Il cardine” è il titolo della prima sezione e questa figura apre in discorso diretto tutta la raccolta “C’è. Lascia libero il passaggio: / il dentro, il ventoso, il profondo / il chiaro è lì che s’incontrano.”: ha il ruolo stesso dell’Arte nel mostrare, indicando il momento in cui la percezione si fa possibile, il visibile nell’invisibile e viceversa. Il custode è angelo (“l’alato”, p. 21), veggente, “l’operaio che lucida e sorveglia / il perno, il salariato dell’eterno // qui a servire” (p. 17), e allora anche il poeta stesso che si sprona e ci sprona a guardare dall’altra parte al prospettarsi del kairòs, quando invita: “Sta’ in bilico. Ti basta il respiro // e l’occhio. Scambia gli spazi. Riattiva / i sensi. Il fiume scorre. C’è / tutta l’infanzia lì dentro, acqua, cieli / riflessi e veri, nubi. Guarda c’è anche // il tremila.”. Servono i sensi e serve il codice artistico ad attivare il percorso, poi la via è quella che unisce gli opposti, che azzera le dicotomie (“o è il suo respiro a trasportare mondo / e sogno unendoli nel vuoto?”, p. 21; “… sia l’altro il vero /o sia tu la carne. D’incendiare il confine si tratta, di vedere”, p. 19), restituisce il dialogo con i morti, con i non ancora nati (“…Ci si guarda senz’occhi / e si ride dell’inutilità // del confine. Si vive”, p. 17), nuota nel non-tempo scardinando la grammatica per una restituzione poetica (“Sarà è stata una nuotata sola /…/ Nuoto di tutti i nuoti. Nella notte. // O era giorno?”, p. 26 e a seguire “… Un tumulo di sassi feriva // i piedi e l’acqua è gelida, felice.”).

Se il custode offre a chi sia disposto a coglierla (serve anche etica!) la soluzione delle contraddizioni in un’unità di respiro parmenideo (dopo e oltre il loro disordinato scomporsi nel vortice), in quell’uno troveranno pace anche le figure doppie di antitesi, ripetizione, chiasmo o parallelismo, ossimoro ecc., splendidi dissidi risolti nella forma alla maniera petrarchesca, ma in chiave moderna. Il linguaggio poetico è sorvegliato, garbato e potente insieme, strutturato: la prima sezione nell’arco di ventotto testi in endecasillabi sciolti va man mano costruendo un sonetto a schema rimico libero. In apertura due quartine, poi a poco a poco si aggiunge una parola, un emistichio, un verso, più avanti un distico, una terzina e via così fino al testo n. 28 che raggiunge i quattordici versi. La seconda sezione si apre con un sonetto e lo sgretola fino ad una sola terzina che restituisce anche il metro alla frammentazione, proprio lì dove si rompe il filo metaforico del cardine e tutto davvero si ricompone (“ROTTO IL FILO. Ma sorretti dall’aria / continuiamo a camminare. Noi, noi / l’aria, noi, gli infiniti.”, p. 66). L’architettura ineccepibile armonizza forma e contenuti, che si rispondono in amplificazione di senso.

Nella prima sezione il filo ha un andamento verticale, nella seconda, che tratta dello spazio-tempo (tit.: “Dove”), come si evince dalla terzina sopra riportata di p. 66, esso è teso in orizzontale e il poeta si fa acrobata, equilibrista sospeso sul vortice o, meglio, sul suo vuoto centrale, con il compito di spronarsi e spronare a camminare, percorrere la lunghezza del filo, perché la meta non è un punto d’arrivo -impossibile da identificare-, ma l’attraversamento, la vita, il privilegio di poterla vivere. Lievi non veste i panni di un poeta con pretese superomistiche, vicino al funambolo nietzschiano promesso in visione alla folla da Zarathustra (in Prefazione), piuttosto si sente più vicino a quell’equilibrista che si mostra in ultimo agli spettatori spazientiti: un uomo come un altro in situazione di precarietà; indica, ma non chiama dal traguardo in quanto già arrivato. Ha la leggerezza di un circense di Chagall, fuori dalla vis politica delle opere sulla Rivoluzione d’Ottobre.

In “Dove” e in “Appendice” si individua immediatamente la casa come luogo più intimo dello stare e il divenire si fa ora parete, travatura, elemento naturale. Il vortice pervade tutto, serve calarvi anche la propria dimensione: ecco allora che anche il sé è vorticante, la parola poetica tormentata, la dimensione biografica più evidente, la soluzione dell’amore e della gioia a un passo, tangibile non sempre afferrabile. Vivere, invecchiare, fare i conti con il tempo è vedere il fiume eracliteo che “risale la scarpata, va là dove / niente può mai tornare. Gli anni // avanzano, si ripetono i riti, / la memoria s’incanta, si ricuciono / i pronomi, si rimpiange l’amore. / Opposizione netta: si diventa”, (p. 47); “Il ciliegio si secca, sparge / le radici, ma nondimeno uguaglia / un alito l’inizio e la sua fine. / Scardina le proposizioni logiche // il divenire.” (p. 44). Più espliciti qui anche i riferimenti alle raccolte precedenti e ai lutti familiari; qui i luoghi del vivere (splendida “Maggio a Gargnano” e il suo lago ancora freddo, p. 43), del lavoro nei teatri d’Europa (il roseto del Volksgarten vicino al Burgtheater di Vienna nel testo di p. 54), i luoghi letterari della meditazione poetica (Kafka, Eliot, i tedeschi tradotti tra cui Trakl, Rilke, Goethe, Hölderin), gli autori di lingua spagnola e il Sud America (Argentina, Brasile) qualche raro e pudico riferimento alle sue opere teatrali (“Fratelli d’estate”, la messa in scena di una commedia di Lorca).

Senza tralasciare il gusto estetico per l’abito stilistico del verso, per la ricchezza di visione e riferimenti letterari, consiglio la lettura di “Nel vortice. Il filo” per un motivo molto semplice: la gioia e la speranza luminosa sottese a ogni manifestazione della vita e della morte, denotano la generosità di intenti di Cesare Lievi (“continua, (…) cammina, / non temere, saltella”, p. 40). Cosa di più autentico e disinteressato, innamorato?

Camilla Ziglia

Selezione di testi
(A.R.)


Il custode. Il cardine

3.
Durata delle cose. Inizio e fine
delle cose. La tavola. La sedia. Tu
che ci dondoli sopra. Il sole è tiepido
oggi, e odora di aranci fioriti.
 
Si consumano durando. Spegnendosi
vivono il loro trionfo. Sono e
non sono. Se le blocchi in un istante
senti un cadavere. Con le tue mani
 
lo plasmi.

(p. 11)


9.
Sei tu del passaggio il custode? Quello
che spalanca la finestra se l’aria
è greve, il fumo scolora le cose
e del respiro il ritmo s’affatica

Pura immagine senza segni, segno
del lontano, del perduto
sei l’operaio che lucida e sorveglia
il perno, il salariato dell’eterno

qui a servire?

(p. 17)



27.
Di certo potrebbe spaccarsi e presto
lo farà: sconquassato il fluire
del tempo, abbandonati alla polvere
gli infissi, devastati i diari,

cantate tutte le canzoni. Vedremo –
sentiremo finalmente nel battito
dell’altro, credo. Ancora in accordo
e disaccordo. In uno, o conoscente,

o amico.

(p. 35)


Dove

6.
Ci sono stanze dove la giornata
scorre incolume e altre
che emanano vapori velenosi.
Il ciliegio fiorisce, dà il suo frutto.

Il ciliegio si secca, sparge
le radici, ma nondimeno uguaglia
un alito l’inizio e la sua fine.
Scardina le proposizioni logiche

il divenire.

(p. 44)


Appendice

Apparizioni

Cinghiali  vengono la notte lenti,
accarezzano con le loro schiene
i cassonetti, capovolgono
i bidoni, grufolano tra i resti
dei vivi nel silenzio
d’una luce lunare:
vaghi mugugni, respiri ansimanti
grevi, fuori luogo eppure perfetti
nel grande ordito delle cose, semplici
indizi d’un respiro più profondo.
Ascoltalo.

(p. 87)


Gli scarafaggi

Disinfestare. E dalle radici
di una vecchia palma volando
uno sciame lucente e nero
riempie l’aria. Ronzio assoluto.
Vapore vivo che lento s’acqueta.

Cadono come gocce rimbalzando
dai vetri, dalla muraglia:
qualche moto nervoso ancora a terra,
qualche suono, poi silenzio, morti.

Disinfestato. E nella mente
la bellezza di quel volo, il piacere,
il brivido delle ali,
della fuga, della sua vanità.

Dov’è il luogo del male?

(p. 92)


Cesare Lievi, regista teatrale, drammaturgo e poeta, è nato a Gargnano nel 1952. Si è affermato poi in Germania, Svizzera e Austria dove ha realizzato – con la collaborazione, interrotta dalla morte, del fratello Daniele – una serie di spettacoli molto apprezzati. Dal 1996 al 2010 è stato direttore dello Stabile di Brescia de dal 2010 al 2012 del Teatro Giovanni da Udine di Udine. Ha pubblicato diversi testi teatrali, ora raccolti tutti in Teatro (Morcelliana 2022), e diverse raccolte di poesia. Ha tradotto Goethe, Hölderlin, Kleist, Rilke e Botho Strauß.

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