“Dal bosco” di Sergio Daniele Donati


Dal bosco

Una scrittura spontanea
(inedito)


I

Attesa, sempre e solo attesa.
E un’umidità che sale senza sosta
e trasuda dai pori;
un avvertimento giornaliero
e unico.
Stai, resta.
Nei boschi umidi del pensiero,
non c’è soluzione né progetto.
Solo un canto lento,
un bisbiglio di donna,
sussurrato da voci di lumaca
su foglie bagnate;
e muschi che accolgono
nuche stanche e seccate dalla vita
e dal gorgoglio
di un impossibile desiderio di cambiamento.
Là sto e resto.

E cala lenta la tensione
nell’assenza di intenzione.

Volevo dirti tante cose,
ma c’è profumo di pino
e prendo a calci coni e pigne;
le getto lontano, lontano.
Poi faccio un passo.



II

Nel bosco un sentiero stretto
coperto da fogliame e marciume
racconta di passaggi umani
o caprini, e narra della vociona grassa
di boscaioli ubriachi.
Mi dicevi di ascoltare
ma io avevo cerumi antichi
di false convinzioni sul mondo.
Rendevano la tua voce cristallina
ovattata e lontana.
Poi la tua sentenza in una lingua
a me interdetta.
La accolsi come accoglie
il suono del picchio sul tronco
una volpe di passaggio.

Un «ah sì? È davvero così?»
E lo sguardo ebete di chi non comprende
e quello di chi comprende.
Parlare dai boschi dei boschi
a chi ti getta in faccia
lo tsunami salato delle sue sistemiche
a chi ti scaraventa addosso
macigni e pietrisco e lascia
un segno color betulla
sulla pelle scorticata.
Ogni fine dovrebbe avere un fine.

Sei stata abile, sì,
ma a scavare fosse,
a saltare a piedi uniti
la recinzione del comune ricordo.
Era balsamo, sai,
e rendeva il tronco caduto a terra
dimora del fungo e tana dell’opossum.



III

Io sono schiavo delle mie sinapsi
e, là dove non colgo
collegamento col poi,
non so parlar del bello.
Per questo vivo nel bosco,
dove tutto è brusio
di un esistente al futuro,
dove ogni cosa narra
la sua trasformazione
e il suo balzo
– in avanti? Indietro? –
verso un altrove che io
dal bosco
m’illudo sia felice.
Non per me.
Non per il mondo.
Per sé stesso.
Felice di non stare
a osservare orizzonti,
libero di trasformarsi
– lento? veloce? –
in un  altro,
unica nostra speranza.

L’orizzonte, ricordalo,
si sposta solo
se muovi un passo.
In sé è statico,
immaginario e inesistente.

Una corteccia invece
mostra rughe e ruvidità
sopratutto quando
cola resine ambrate
e lascia intendere al viandante
il valore della suppurazione,
il troppo che dall’interno fuoriesce,
per morire all’aria.





Sergio Daniele Donati è nato a Milano – che definisce «la sua unica amante di una vita» – nel 1966, e ivi ancora risiede. Ha pubblicato: Amén (poesie, Il Leggio ed., 2024); il romanzo Tutto tranne l’amore (Divergenze ed., 2023); la silloge Il canto della Moabita (Ensemble, 2021); il saggio E mi coprii i volti al soffio del Silenzio (Mimesis, Collana dei Taccuini del Silenzio, 2018). Sue poesie sono state pubblicate nelle antologie Pasti caldi giù all’ospizio (Transeuropa, 2023 — a cura di Francesco Addeo) e Riflessi. Rassegna critica alla poesia contemporanea (Edizioni progetto cultura, 2023 — a cura di Patrizia Baglione). Sue poesie edite e inedite e note critiche alla sua opera sono state ospitate da numerose pagine letterarie e quotidiani. È stato intervistato da Luisa Cozzi nella puntata del 7.12.2023 di Poetando e delle sue poesie sulle lettere ebraiche si parla tra l’altro su Poètica. Alcuni Poeti Viventi. È autore di numerose pre e postfazioni a raccolte di poesia contemporanea e collabora con numerose riviste letterarie. Fondatore, caporedattore e curatore della pagina Le parole di Fedro, ivi propone alcuni dei suoi percorsi nel linguaggio poetico e narrativo, con particolare accento su un approccio, anche laboratoriale, al dialogo poetico. Avvocato milanese si occupa di diritto commerciale e di tutela dei minori. Studioso di meditazione ebraica ed estremo orientale, insegna cultura e meditazione ebraica in associazioni e scuole di formazione e tiene seminari sul valore simbolico dell’alfabeto ebraico.


Immagine: Parco del Gran Paradiso, da Valnontey – foto di Alfredo Rienzi, 2020

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