Una lettura di “Per segni accesi”, di Annamaria Ferramosca

Annamaria Ferramosca, Per segni accesi, Giuliano Ladolfi Editore, 2021.
Prefazione di Maria Grazia Calandrone




Se c’è – prevalente su altre componenti – un elemento centrale nell’ultima opera di Annamaria Ferramosca, stratificata e densa (“complessa tessitura” dice l’Autrice), questo va cercato in quello stato o meccanismo – che ben conoscono i poeti – che precede la parola, che si agita in quello spazio o nella inarginata dimensione tra l’approdo (in senso ampio, di afflusso o flusso, sensoriale, riflessivo, rammemorativo, reale o visionario) del mondo alla poetessa e la risposta versale e verbata di questa, che ha bisogno, per darsi compiutamente, di non rispondere del tutto a nessun ordine narrativo, tematico o sonoro predefinito e rigido.
In questo meccanismo, quindi, con una modalità stilematica personale ormai riconoscibile, la materia del dire e l’oggetto nel suo embrice o amalgama con il soggetto narrante si accendono al contatto di scenari e orizzonti plurimi, nei quali tuttavia si mostrano una coscienza ed un sentire definiti e chiari.
Così, sia che si figurino scene “dell’infanzia, del mito, [delle] stanze dell’eros” o di un’umanità (o disumanità) tanto materica e attuale quanto acronica e archetipica o, ancora, richiami di ecologismo planetario, un sentimento di com-passione, di fragilità delle cose nel fluire del tempo, di finitezza pervade l’intera raccolta. Anche di limitatezza, che coniuga topoi come “buio”, “mistero”, “silenzio” e che pare essere più che sfidata, accolta, nelle reti di una parola che non accetta l’assertività o la pacificata finzione o l’elusione. La stanza più intima della condizione umana nel mondo, in questo mondo, può solo essere additata – nei silenzi o nei vertiginosi nomicomposti – ma, consapevoli dei «piccoli trucchi/ del mondo per illuderci» (p. 21), come i “segni sulla sabbia indecifrabili” (p. 17), non può essere interamente pronunciata.
È un’opera, questo Per segni accesi, che confronta l’immutabile alle succussioni dell’epoca. Queste vengono racchiuse, non a caso, tra un testo letteralmente di inizio – (una nascita, il «tendere misterioso del seme») e il testo finale “terra domani” che in un tempo solo dice «ho visto in sogno il futuro», ma nel farlo, schiera alle spalle, quindi in questo presente, le ferite aperte della divisione dell’uomo dall’uomo (“ibridi” è quanto verrà, ripetuto in almeno due testi), della sofferenza del pianeta, forse della sua agonia («da un’astronave guardava»).
È un canto dolente, strutturato grazie alla capacità tecnica e di parola di Ferramosca, in testi nei quali le storie si affidano più alla forza semantica – o ad incisive sentenze – che alla narratività compiuta. Funga ad esempio il testo di pagina 25, uno delle migliaia di testi in circolazione che affrontano il tema della migrazione: senza un microgrammo di retorica e senza mai neppure esplicitare il tema, in soli due versi, al centro del testo, la poetessa compie una sintesi di potenza tale che – come un buco nero – non richiede altro che se stesso: «noi veri migranti/ verso l’abisso». La tragedia supera se stessa, poggiandosi su un sentimento ulteriore rispetto alla sofferenza specifica e si fa, ripeto, com-passione della condizione stessa dell’essere umano.
È un canto dolente, certo, dove «l’umano s’allontana», le città sono sepolte, le foreste sono le ultime, dove si prospetta un «futuro d’ombra» e dove la separazione dall’altro è causa di separazione da sé: «…la materia in disordine/ la terra che non riconosce più il suo seme// nemmeno io riconosco te    l’altro/ nemmeno me stesso     non ricordo/ com’ero come/ avrei voluto essere» (p. 68). Ma l’essere poeti offre speranze. Forse oltre le congetture razionali, le considerazioni programmatiche. Le offre perché il poeta sa di una realtà ampia, nella quale le notti sono solo un tempo, finito. La finitezza delle cose del mondo è parte di un «oltreorizzonte», di una (ri)«nascitamistero» e della «della promessa inesauribile di un’alba». Accogliere la limitatezza, dunque, è confrontarsi con il senso stesso del limite e di ciò che lo sconfina. Ferramosca percorre una sua strada e pare ce la suggerisca:

«fare tabula rasa dei pensieri
affidarsi al buio
con la sicurezza dei ciechi

sostare ad ogni angolo della notte
afferrare i lumi al baluginare dell’alba
sulla bocca delle sorgenti
nel luccichio delle nascite

verrà l’oceano
verranno le sue vele
saremo nuovi per nuovi continenti»  
(p. 35)

L’«essere nuovi» nella raccolta si coniuga soprattutto con un rinnovato patto tra l’uomo – pur delle «tecnocittà» – e la natura («un filo invisibile/ lega i viventi a terra e cielo/ […]/sacro è il flusso/ del fiume     così di linfa e sangue», «ché siamo tutti – fogliepietreanimali- / fatti della stessa luminosa sostanza»,  ma soprattutto attraverso una nuova fratellanza: l’ «arte del camminare accanto», l’«accogliere in gioia i suoni multilingue», il «riconoscere la madre in ogni terra/ e fratelli su ogni terra uguali».
Ma come, ritornando ai simbolici lumi dell’alba, coglierli se «sono le notti a non volere/ più la loro fine»?

Il sogno ci dice Annamaria Ferramosca, è il sogno l’arma che possiedono i poeti, perché – notevole verso – «non siamo nel mondo ma in un presentimento» ed «è in sogno che s’aprono i varchi/ per l’altro/ il sempre inesplorato      il magnifico parlante»: «mi dici ho visto in sogno il futuro», «un tempo bianco dove/ il sogno semplicemente s’avvera».
Per segni accesi ha per sottotitolo password per una cammino (sono frequenti gli anglo-tecnicismi, armonicamente integrati nella raccolta). Lo rivelo solo adesso che potrà apparire più chiaro, per quanto finora esposto, come sia il tema del cammino – individuale e collettivo – sia quello della parola-che-apre le porte, finanche quelle della visione e dell’utopia -, sono i territori che l’autrice ha sentito necessario percorrere e che forse ogni poeta, in qualche modo, è chiamato ad esplorare.

Alfredo Rienzi, dicembre 2021




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