Intervista a Loris M. Marchetti, di Paolo Pera

1) Ciao Loris, benvenuto! Dunque, negli ultimi tre anni sono uscite le tue “opere del quarantennale”, da una parte ve n’è una più corposa (Latitudini fluttuanti, 2019), dall’altra una più sottile, con un’appendice di inediti (Le incognite dell’anima, 2020), entrambi editati da puntoacapo. Racconta la genesi della tua opera poetica, quando giunsero i primi versi? Trai poi le fila di tutto il tuo percorso fino a oggi.

L’impulso a scrivere versi mi venne a undici anni (facevo la prima media) in séguito alla lettura dell’Iliade, poema epico che mi entusiasmò e mi indusse a comporre un poemetto ispirato alla seconda guerra mondiale dal titolo Führerestide, dove si contemplano ascesa, imprese e soprattutto catastrofe punitiva del folle tiranno germanico: di certo non ero attratto dalla sua criminale figura, ma probabilmente, forse inconsciamente, dal demoniaco in sé. È così iniziato un percorso che – con ben più tardo approdo editoriale – è arrivato a Le incognite dell’anima, oltre sessant’anni dopo!
Ritengo che la Poesia nasca dal congiungimento di un’irrefrenabile esplosione della fantasia (o, almeno, dell’immaginazione) e un imprescindibile rigore organizzativo dell’intelligenza, fra i bradisismi degli strati più profondi dell’inconscio e la critica vigilanza della coscienza, fra l’ispirazione del daìmon, insomma, che suggerisce la materia del dettato (materia nel senso di argomento, oggetto da rappresentare), e la mano del poietés (dell’artigiano) che quel magma bollente deve rigorosamente formalizzare/stilizzare entro gli stampi che esso stesso (esso magma, non il poietés) esige. Per quanto mi concerne, devo convenire che il senso ultimo (o primo) del mio scrivere in versi riposa sul riconoscimento dell’impossibilità quasi biologica di esimermi da un’innata condanna maieutica che mi impone, indipendentemente dalla mia volontà, di dare appunto forma a un organismo (la Poesia) che si serve di me (il poietés, l’artigiano – Carducci avrebbe detto il grande artiere, d’Annunzio l’artefice, Quasimodo l’operaio di sogni…) e dei miei strumenti per venire alla luce e costituirsi secondo sue intrinseche leggi organiche razionalmente imperscrutabili che tuttavia io cerco, se non di scoprire, almeno di assecondare nel mio lavoro di officina. Sintetizzò meravigliosamente d’Annunzio nella Contemplazione della morte (1912): l’arte non è «se non una magia pratica» (il corsivo è mio). In parole semplici: scrivo perché non posso farne a meno, non ho scelto io di scrivere, sono stato scelto (a undici anni); perché credo di saperlo fare (indipendentemente dai risultati che non sta a me giudicare); e perché mi piace, mi diverte. La Poesia è anche un gioco. Un gioco di prestigio, se vogliamo. Montale, in un articolo del 1945, a proposito di Theodore de Banville scrisse della Poesia come di qualcosa di «stregonesco», ribadendo, anni dopo, che «la poesia è un mostro: è musica fatta con parole e perfino con idee»; e potremmo coinvolgere Gottfried Benn allorché propugna «la poesia assoluta, la poesia senza fede, la poesia senza speranza, la poesia fatta di parole che vengono messe insieme per affascinare» (corsivo di nuovo mio). Potrei aggiungere che non ho mai scritto per me stesso, o solo per me stesso: si scrive per comunicare agli altri, per donare agli altri, eventualmente per pubblicare. All’ingenua domanda «perché si scrive?» uno dei miei più amati maestri di letteratura, Edoardo Sanguineti, rispose, ironicamente ma non troppo, che si scrive per creare un’opera d’arte, per arricchire il mondo di una cosa bella che prima non c’era ma di cui il mondo abbisognava: cioè, mi permetterei di integrare io (umile allievo), di una cosa bella che era già in potenza nella materia e che l’artista, l’artefice, ispirato dal daìmon, deve sbozzare e far apparire nella sua integrità. Ma questo lo sapevano già gli antichi Greci! 


2) Nel corso della tua Opera c’è stato qualche grande tema? Più grandi temi? Nel caso come sono stati affrontati e fin dove sono stati portati?

Se c’è qualcosa di vero in quanto appena detto, devo riconoscere che mi sono sempre stati alieni ogni progetto di scrittura concepito a tavolino, ogni predeterminazione di percorsi tematici, ogni idea di poetica da attuare. Semmai questi parametri li ho identificati a posteriori o me li hanno rivelati gli interventi della critica (anche per quanto concerne il piano linguistico/stilistico). Nella mia produzione fin verso gli anni Novanta è centrale il tema amoroso, visto nella prospettiva della dialettica aspra e dolorosa di amore-odio di coppia, della difficoltà o impossibilità dell’intesa, motivo, quello amoroso, successivamente pervenuto a una stilizzazione più positiva e rasserenata. Appartengono poi al mio bagaglio tematico le meditazioni sul fluire del tempo, le variazioni sul valore simbolico metaforico sentimentale degli oggetti, i Reisebilder (v. n. VI), il dialogo con i morti anche in concomitanza con una tormentosa ansia religiosa (specie negli ultimi decenni), la contemplazione della Natura, entro la quale – ad esempio – posso ancora individuare il fascino perennemente misterioso dell’alternanza delle stagioni, l’apparizione degli animali la cui animalità è di gran lunga preferibile alla bestialità umana, la presenza del mare come elemento originario di incidenza archetipica quasi mistico-sacrale… Il tutto nel quadro di un tacito o spesso esplicito rifiuto fortemente e dolorosamente polemico del mondo e dei valori (o disvalori) contemporanei, ormai infettati dalla secolarizzazione, dalla meccanizzazione, dalla massificazione, dall’onnipotenza di una mostruosa tirannia tecnocratica usurpante i pur modesti diritti della scienza e tanto più demoniaca in quanto mefistofelica banditrice di un sempre più ampio futuro di felicità universale realizzabile in virtù della sua sempre più totalizzante e irresistibile affermazione, comunque incapace di bandire il dolore e la sofferenza inerenti alla condizione umana.


3) Di certo l’autore che ti ha dato le prime ispirazioni massime è Eugenio Montale, come spesso ricordi, com’è nato quest’amore? Cosa mutui da lui e dove la tua Opera diverge? Per dire, ai versi «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe» tu cosa risponderesti? Anche a te non va chiesta la parola?

No, gli autori che a me adolescente hanno dato le «prime ispirazioni massime» sono stati (oltre ai Classici studiati a scuola) Quasimodo, Lorca, Jiménez, gli altri grandi spagnoli novecenteschi, Eliot, Apollinaire. Montale è una scoperta successiva, che non saprei datare precisamente, se non riconoscendo che si fonda sull’ultimo Montale, quello da Satura in poi, e non sul primo, quello che convenzionalmente si fa terminare con La bufera e altro. Compiendo quindi una lettura a ritroso ho poi avvertito che il primo Montale ha espresso come pochi altri il travaglio, il disagio, la tragedia dell’uomo novecentesco, ma l’ho verificato dopo aver assaggiato il secondo Montale. Giorgio Bàrberi Squarotti, grande critico e grande amico, sosteneva che la mia poesia non aveva nulla a che fare con quella di Montale. Io non saprei dire se e quanto devo a Montale, probabilmente, se gli devo qualcosa, sono l’ironia (strumento di difesa e di attenuazione dell’angoscia e dell’orrore, ma anche guardiano nei confronti di una presunta eccessiva fiducia nei sentimenti), la prosasticità (spero non prosaicità…) della sua fase seconda, un inguaribile pessimismo esistenziale che tuttavia ostinatamente non rinuncia all’impiego artistico della parola. In ogni caso penso che neppure io sono in grado di fornire “quella” parola. L’acquisito amore per il poeta si è naturalmente esteso al prosatore (stupendo), al giornalista, al critico letterario e musicale – magistrale in quel suo personalissimo stile dimesso e di tono “basso” che ha indotto i malevoli a sottovalutarlo e snobbarlo in quelle vesti. 


4) Chi altro oltre a Eusebio ti ha profondamente influenzato? Hai conosciuto dei maestri sommi nel tuo errare? Nel caso hai ricordi affettuosi da condividere?

Su chi può avermi influenzato nell’adolescenza e nella prima giovinezza ho già detto. Posso aggiungere che nel corso del tempo ho riconosciuto un maestro sommo in Goethe, una miniera infinita di sapienza e intelligenza, forse non sempre di simpatia e calore umano, ma non per freddezza quanto per timore del demoniaco insito negli istinti, nei sentimenti, nelle passioni (demoniaco che, sia ben chiaro, niente ha da spartire con il daìmon a cui mi riferivo sopra). Entro i confini della poesia, ritengo che, nello scorrere degli anni, altri incontri novecenteschi decisivi siano stati quelli con Pound, Rilke, Benn, Borges, Celan, Brodskij. (Tra gli italiani, ho sempre amato e amo tutt’ora soprattutto l’Ungaretti dell’Allegria, Cardarelli, Vigolo, Onofri, Gatto, Borlenghi, Cattafi, Caproni, Ripellino).  Sul piano della conoscenza personale, fondamentali sono stati per me gli incontri con Paolo Santarcangeli e con Vittorio Sereni, splendido uomo e splendido poeta, mancato ahimè troppo presto per un ampliamento e un approfondimento del dialogo. Il che purtroppo avvenne anche con un altro poeta lombardo di notevole valore e civiltà, Renzo Modesti.


5) Ti riconosci nella definizione che dà di te Franco Trinchero (poeta e critico) di “autore europeo”, in contrasto con certi ritorni ermetici odierni e in piena armonia con uno humor – squisitamente cinico talvolta – british?

Sì, mi riconosco perfettamente nella definizione dell’amico Trinchero con cui concordo. Quanto al british, in effetti i miei primi interessi culturali, generalmente intesi, furono volti proprio al mondo anglosassone, dagli anni del ginnasio a quelli universitari. Poi vennero affiancati (non soppressi) da quelli rivolti al mondo francese e austro-tedesco, a doverosa integrazione. Uno dei miei più amati professori universitari, insieme a Sanguineti, fu Claudio Gorlier e ricordo con gioia lo splendido esame di Letteratura Nordamericana sostenuto con lui come una cólta e fervida conversazione tra amici durata oltre mezz’ora, quasi quaranta minuti… Negli stessi anni, pur non dando l’esame di Letteratura Inglese, andai talvolta (orari permettendo) ad ascoltare le ammirevoli lezioni di Giorgio Melchiori su Yeats, altro sommo poeta novecentesco.


6) Eppure la tua città d’elezione è Parigi, nevvero? V’è in te un qualche spirito francese? Come nasce la passione per questa città? Nella tua poesia, poi, il viaggio è un elemento indispensabile, cosa ricevi da questo?

Parigi la conobbi per la prima volta a diciannove anni, in occasione di vacanze pasquali, e fu amore a prima vista. Parigi significa per me Stendhal, Flaubert, Maupassant, Mallarmé, Valery, Proust, Camus, Malraux, Simenon, Montherlant, Nimier (e, perché no?, anche gli “infami” e sulfurei Celine e Drieu La Rochelle), gli Impressionisti… ma anche molto altro, da ogni punto di vista (vi avevo anche dei carissimi cugini francesi, dal côté materno). Lo spirito francese fu certamente infuso dai miei genitori, giacché mia madre (di padre israelita nato a Barcelona e formatosi a Parigi prima di rientrare in Italia agli inizi del Novecento) parlava, scriveva, leggeva perfettamente il francese, mio padre quasi altrettanto.
Il viaggio: sì, si è rivelato un elemento fondamentale per la mia scrittura. Città, campagne, boschi, laghi, tramonti, colori, atmosfere sono per me fonte primaria di ispirazione, non in chiave naturalistica quanto suggestioni a decifrare (o supporre o reinventare) la loro intima essenza, il significato e il perché del loro essere, le coordinate fisiche spirituali intellettuali che stanno alla loro nascita (in caso di opere dell’uomo), il mistero cosmico (nel caso di realtà naturali). In questo senso il daìmon può additare anche una friggitoria di Noli o una piazzetta della periferia torinese o una rotonda sul mare a Cesenatico o un’ansa di fiume. Approfitto per confessare (ma già l’ho fatto in versi) che, se Parigi è la mia città “d’elezione”, Milano (e con lei la cultura “lombarda”), per ragioni che sarebbe troppo lungo qui esternare, è anch’essa una mia città “del cuore”.


7) Sei pure un raffinato cultore di musica classica e no, relaziona la musica che hai studiato e amato alla tua produzione scritta.

Circa la musica, devo nuovamente coinvolgere la sfera familiare. Mia madre fu una brava pianista amatoriale, le due sue sorelle minori anche, seppure un po’ meno… Il culmine l’aveva raggiunto la loro madre, mia nonna (una contessina veronese consorte del già menzionato gentiluomo israelita formatosi a Parigi e pure lui eccezionale sonatore di pianoforte “a orecchio”), che avrebbe potuto intraprendere – si diceva – una luminosa carriera concertistica se il matrimonio non avesse prodotto la nascita di cinque figli (due maschi e tre femmine). Mio padre non suonava, ma adorava la musica e in gioventù cantava nella corale universitaria. Ovvio che in seno a una famiglia simile il morbo musicale abbia contagiato anche me. Ma quando il contagio raggiunse il culmine, era troppo tardi per iniziare un serio e specifico studio della musica con legittime aspirazioni professionali, per cui mi sono limitato a servirla come studioso di estetica e scrittore di argomenti inerenti (rapporto tra musica e poesia, relazioni degli scrittori con la musica, ecc.). Non ho rimpianti per non essere stato pianista o violinista o violoncellista (un pochino, semmai, per la direzione d’orchestra), ne ho invece di cocenti per non essere stato un musicista di jazz, batterista o solista di sax baritono (come il mio idolo Gerry Mulligan). Non c’è da stupirsi se nelle mie poesie ci siano abbastanza frequenti citazioni, riferimenti, allusioni musicali. Quel che mi dispiace è che anche rilevanti interventi critici sulla mia poesia abbiano sempre o quasi sempre ignorato queste presenze, il loro significato, il perché della loro inserzione, ecc. e soprattutto non abbiano notato come questi richiami o evocazioni si riferiscano in specie a quella che impropriamente si chiama musica “leggera”, o pop, o di consumo, o di intrattenimento (contrapposta alla altrettanto impropriamente definita “classica”), a quella musica cioè che più di ogni altra scandisce la nostra vita ordinaria, il nostro tran-tran quotidiano, le nostre occasioni di socialità. Mi permetto d’osservare che avranno pur un significato le mie scelte in questa dimensione.


8) Di te parlano come di un “poeta diarista” o “del quotidiano”, in questa definizione ti riconosci? È certamente un via molto novecentesca della poesia, che ha da fare col Montale senile per di più, ma quante illuminazioni vengono giorno per giorno, magari nella pace domestica… Ne convieni?

Sì, mi riconosco, Raffaele Piazza mi ha definito «feticista del quotidiano»: mi riconosco, sempre a condizione – se non presumo troppo – che l’approccio al quotidiano sia considerato non in senso realistico/naturalistico ma come afflato a una conoscenza di come, quando, perché quel dato fenomenico (umano o naturale) si sia realizzato in seno all’economia dell’universo e che parte vi svolga. Del ruolo dell’ultimo Montale in questo processo ho già detto. Nessuno più di me apprezza ed  esalta  la pace domestica, ma dubito possa essere creatrice di mirabili illuminazioni. Almeno per quanto mi concerne.


9) Chi è notabile oggidì per Loris Maria Marchetti? Chi va letto a tutti i costi (vivo e no)? Sentiti libero di indicare pure narratori o saggisti oltre ai poeti.

Domanda intrigante e complessa, che richiede una indispensabile avvertenza: vale a dire che posso pronunciarmi da letterato che occasionalmente scrive di argomenti letterari e musicali ma che non si considera un “critico”, essendo la critica, oltre che uno specifico genere letterario, una professione caratterizzata da criteri, aspetti, finalità ben determinati; quindi le mie risposte non possono che essere rapsodiche, partigiane, tendenziose, umorali. Tra i poeti italiani viventi degni di lettura segnalerei Roberto Carifi, Giuseppe Conte, Rosita Copioli, Giorgio Luzzi, Paolo Ruffilli, Cesare Viviani e due splendidi autori forse sottovalutati o ignorati perché “periferici”, Giuseppe Piazza (Giarre) ed Eugenio Vitali (Ravenna). Tra i romanzieri non saprei chi nominare, perché non leggo più romanzi italiani contemporanei da almeno trent’anni (a parte quelli degli amici, che qui non nomino per non far loro torto dimenticandone qualcuno). Mi deliziano invece i saggisti, soprattutto Macchia, Zolla, Ceronetti, Arbasino, Calasso, il cardinal Ravasi, Magris. Non segnalo, dando per scontata l’oggettiva necessità della loro lettura, gli eminenti critici/saggisti impegnati nei peculiari settori letterari, musicali, delle arti figurative, ecc. Passando agli stranieri, sono un (abbastanza) fedele lettore di Julian Barnes (con la sua singolare saggistica in forma di narrativa, molto british ovviamente), nonché dei romanzi di Thomas Bernhard, John Banville, Philippe Claudel, Patrick Modiano. L’ultimo poeta di cui mi sono seriamente occupato, francese, è Yves Bonnefoy (morto ne 2016), anche per la sua opera di comparatista, tra letteratura, arti figurative, musica. Mi permetto di osservare che chiunque si interessi a vario titolo di letteratura dovrebbe assolutamente leggere – oltre che la Bibbia – i libri di George Steiner, tutti tradotti in italiano.


10) Loris Maria Marchetti sta pensando ad altri progetti o si è disposto, come mi confessava, al “pensionamento”? Cosa che dovrebbe escludere, a mio dire.

Il “pensionamento” dipende dal daìmon e dalle Muse, ma è possibile – anzi probabile – che, terminata una loro vacanza, tornino a visitarmi.


11) In conclusione, qual è la massima che ti accompagna?  Vuoi lasciarci qualcos’altro su cui meditare?

La massima per ora la rimandiamo.


Dicembre 2021

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Poeti (di Torino) in 10 righe # 13: Loris Maria Marchetti

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