“La macchina del tempo” di Raffaele Floris. Una lettura di Mario Marchisio e una selezione di poesie

Raffaele Floris, La macchina del tempo, (puntoacapo Editrice, 2022), prefazione di Ivan Fedeli

«Cosa ci resterà di quelle sere / nebbiose, delle rogge, delle chiuse?». Alla sbigottita domanda, che l’io poetico pone a se stesso e ai suoi muti interlocutori in una strofa di Terra di confine, risponde idealmente, alcune pagine dopo, questo verso e mezzo: «[…] un’improvvisa risonanza / di luce nel morire delle cose». Gli affetti perduti, il succedersi delle stagioni, l’approssimarsi inesorabile della fine, un possibile orizzonte oltremondano cristallizzato nel simbolo potente del «giardino» («[…] Vorrei pensare al tuo giardino / come a una ricompensa […]»: La soglia), con una curiosa sovrapposizione di immagini fra l’Eden precedente la caduta di cui narra il libro della Genesi e le delizie celesti promesse dal nuovo Adamo nel Vangelo: questi in estrema sintesi i dati di maggior rilievo che collegano La macchina del tempo a Senza margini d’azzurro (puntoacapo Editrice, 2019).

Se poniamo attenzione alla forma delle liriche, non ci sfuggirà il permanere dell’endecasillabo, strutturato però nell’attuale raccolta in componimenti di tre quartine ciascuno, con o senza rima, ovvero in testi monostrofici di versi sciolti. Ed è proprio da questi che si affaccia la novità principale rispetto al libro del 2019. A intervalli regolari – una poesia ogni gruppo di quattro – sfilano infatti sul proscenio della parola i fantasmi della storia contemporanea, cristallizzati in episodi di guerra e altre abominevoli sopraffazioni, dal Medio Oriente all’America fino al cuore dell’Europa. In essi il brivido di una realtà disumana si accende di pacato, cristallino lirismo grazie all’equilibrio stilistico che caratterizza il dettato di Floris, consentendogli trattenere l’empito emotivo allo scopo di renderlo ancor più profondo. Mentre leggiamo queste pagine, il «[…] male oscuro / del mondo […]» balza dunque in primo piano e conferisce un vago contorno di sogno, di dolente conferma, di tragica rassegnazione, all’ultimo verso di Camera oscura: «La macchina del tempo ha funzionato». Così come ha funzionato la macchina stessa della poesia, capace di fondere in un unico concerto le voci dell’anima e i filamenti insanguinati della storia.

Mario Marchisio

Poesie da La macchina del tempo
(selezione di A.R.)

Abitare l’ombra

Il tempo se ne andrà come ogni cosa
di questa vita: sulla meridiana
l’ora ritorna e l’arte del silenzio
è l’ombra cava dove si consuma

la vita, in abitudini di cieli
svuotati, gonfi di parole uguali,
dove il tempo è denaro e la gramigna
dei giorni amari ci è cresciuta dentro.

C’è forse un modo di abitare l’ombra,
c’è una sapienza  in  tutto quel silenzio:
già si dischiude un volo di falene
chissà come sottratte ai pipistrelli.




#Managua (2018)

L’alba a Managua ha voci indefinite.
Ombre innocenti, vite senza nome
gremiscono l’imbocco al Mayorreo.
Smerciano pesce e fresco di cacao,
anacardi e giornali: non importa
l’età quando si deve sopravvivere
sprofondando nel fango della pioggia.
E il sole cocente delle lamiere
sulle baraccopoli brucia sogni,
speranze, giorni arresi. Sul crinale
del nulla si intravedono le luci
della strada. Mani bambine attendono
un altro vivere, un’altra occasione.




Cinciallegre

Chissà se torneranno. Era la neve
a rendere sgargianti quelle piume,
quell’onda azzurra e d’oro, il volo breve
su tetti e davanzali. Spento il lume

guardai quel volo, quella fame antica:
le bacche e l’uva passa sul balcone
scomparse; e il batticuore, la fatica
di stare sul chi vive. È la stagione

avara della resa, il disinganno
dei rami senza linfa: c’è l’inverno
sull’uscio. Chissà, forse torneranno,
così come una rima sul quaderno.




La macchina del tempo

La macchina del tempo: un’occasione
che non vorrei per me, ma per i gelsi
custodi dell’autunno. È la finzione
degli anni, dei sentieri che non scelsi.

Sconfina la pianura, come sempre
succede. Lei che ha fame di radici,
di fossi:  non c’è chiusa che abbia tempre
gagliarde e polsi senza cicatrici.

Così nasce il dolore. Non c’è scampo
per gli argini al fragore della piena;
la nebbia, come sempre, in controcampo,
la resa, questa volta, sulla scena.




#Tijuana (1998)

Un martirio occultato. Come abbiamo
potuto trasformarci così, quasi
fosse normale tollerare corpi
violati, resi anonimi, ridotti
a un numero nel ghiaccio artificiale
di un obitorio? È una guerra fantasma,
ogni colpo una vittima, una tacca:
il marchio del Cartello Sinaloa.
Nei salotti del mondo è scellerato
questo silenzio inerte, questa coltre
di cecità che incombe sul dirupo.




Un po’ di terra, un po’ di cielo

C’era un silenzio strano quella sera
di marzo. Avrei dovuto conservarla,
quell’agendina: adesso potrei dirti
il giorno e l’ora. Il tuo vestito grigio,

le Camel sul cruscotto: tutto torna
nei sogni, qualche volta. Siamo stati
lontani, in una bolla temporale,
quasi ci fosse un solco: a cosa serve

la data di una sera? Cosa importa
dei sogni se la macchina del tempo
è solo un trucco? Lacrime ne abbiamo
ancora. E un po’ di terra, un po’ di cielo.


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